di Stefania Bonelli/ Al suo quarto lungometraggio possiamo senz’altro riconoscere che Edoardo De Angelis non possiede “il vizio del piagnisteo” di un certo cinema italiano che troppo spesso sembra intrappolato tra il lamento e la denuncia. Ma questo è l’unico merito, a nostro parere, che possiamo concedere a quest’ultima sua opera.
Il vizio della speranza è un’esplicita metafora evangelica: Maria, ultima tra gli ultimi nella periferia degradata e più profonda dell’Italia del sud, è l’eletta inconsapevole per una nascita che sarà foriera di speranza. Lei, che è stata raccolta tra i rifiuti di una foce putrida e paludosa, violata nell’innocenza il giorno della sua prima comunione, diventa la custode della tratta dei neonati delle minorenni prostitute che vengono poi venduti a donne sterili. Sarà proprio lei quella che dal letame farà nascere un fiore. Intorno, solo a munnezz’, umana e non: la madre (Cristina Donadio), una tossica interessata solo al profitto economico; la mezzana Zì Marì (Marina Confalone) che alla libertà, un “campo vuoto senza regole”, da tempo ha rinunciato in favore della rassicurante schiavitù delle catene, da cui ovviamente trae profitto, senza però riuscire ad emanciparsi dalla miseria su cui lo ha edificato. Sì, perché per uscire fuori da tanta bruttura il denaro non basta: c’è bisogno di quell’atto creativo che solo l’amore è capace di generare. E nessuno dei personaggi dagli occhi asciutti e senza speranza ne è dotato. Solo Maria è in grado di invertire la rotta, incinta anche lei, anche se il perché non è dato saperlo.
Ancora una volta De Angelis ci porta in quelle periferie sordide presenti anche in Indivisibili e in Mozzarella stories, questa volta però senza il coraggio di indagare nell’ambiguità presente nel primo, né immergendoci nello straniante distacco dell’ironia del secondo. Il vizio della speranza rimane sospeso in una sequela di immagini ad effetto senza mai l’audacia di scendere negli inferi, nell’ambiguità delle cose. La scelta estetica di non mostrare la violenza di questi luoghi non è accompagnata da alcuno spessore, da alcuna compattezza o densità nel racconto che ci offre. De Angelis rimane in superficie o tutt’al più si rifugia nella narrazione di una sceneggiatura che, da sola, viene ridotta ad una favola urticante, soprattutto quando si inoltra in immagini evocative (il cavallo che corre sulla spiaggia, i silenzi di Zì Marì di fronte al mare al tramonto, la “natività” di fronte al caminetto) che rimandano ad un discorso inutilmente estetizzante e dunque vuoto.
Decisamente non siamo riusciti a cogliere il senso di questo messaggio di speranza in un mondo disperato, in quanto è il coraggio della resistenza, che pure vorrebbe testimoniare – formale e contenutistica, ciò di cui per primo il film è mancante.
Potente e incalzante invece l’ultimo film di Michael Moore, Fahrenheit 9/11. Da qui Moore riparte con quello che sembra essere un unico grande discorso, un immenso documentario che va da Bowling a Columbine a Fahrenheit 11/9 e che con quest’ultima opera aggiunge un nuovo tassello all’America oggi.
Il 9 novembre 2016 viene ufficialmente comunicata la vittoria di Trump alle ultime elezioni degli Stati Uniti d’America e, usando tutta una serie di registri, dall’ironia alla tensione drammatica, e con meticolosità e pervicacia ostinazione, Moore intervista, raccoglie testimonianze, inferisce, deduce, denuncia soprattutto, definendo i contorni di un mostruoso e perfetto mosaico.
Il suo documentario è tanto più bello quanto più riesce a toccare ogni corda dell’animo umano. Si piange e si ride contemporaneamente di fronte ad un’umanità ormai ottusa e vuota, spinta ad agire solo in base al profitto compulsivo e perennemente insoddisfatto o in preda a continue paure generatrici di aggressività. Eppure, nella drammaticità del momento storico, Moore riesce ad accendere una nota di speranza. Lo fa ricercando le cause del fallimento del partito democratico americano che, proprio come è accaduto qui, nella repubblica italiota, non possono che raggrupparsi in un unico termine: il compromesso. Quello con le banche, con la finanza, con il neoliberismo, quello che ha portato alla perdita di una consistente fetta di elettorato che, sia negli Stati Uniti che in Italia, non crede più a nulla e si rifugia nell’astensionismo. Nel nulla.
Il film di Moore è pieno di desiderio, il desiderio di non soccombere, di credere che una verità esista e sia dalla parte dei più deboli. E’ un atto di resistenza al nichilismo delle societàdeiprofittiatuttiicosti quando racconta la toccante vicenda della città di Flint, nel Michigan, avvelenata dalle acque piene di piombo ad opera di un progetto criminale pianificato dal governatore repubblicano Snyder, sostenuto da Trump. L’arrivo del presidente Obama, salutato come colui il quale svelerà la verità, si rivelerà una scottante delusione: tutto verrà insabbiato in una delle immagini più emblematiche di quel compromesso di cui sopra.
Fahrenheit 9/11 è un film pieno di slancio, di amore, di apertura. Quando decide di seguire la “resistenza” di un gruppo di ragazzi in rivolta contro la vendita delle armi ai giovani, o quando mostra gli insegnanti che scioperano per avere un aumento del salario del solo del cinque percento, per non finire sotto la soglia di povertà. O quando racconta la storia di donne come Alexandria Ocasio-Cortes che sono la speranza del prossimo mid term. E’ un film che si apre all’esistenza di un orizzonte che è speranza, sogno, promessa, che come una fenice può e deve nascere dalle ceneri della povere gente, dei bambini malati di piombo di Flint, di quegli studenti inutilmente assassinati dalla follia omicida di vuote esistenze. Che è pieno di responsabilità, quella che abbiamo noi tutti di vigilare sempre sulle libertà acquisite, che mai sono garantite da alcuna Carta Costituzionale.
Perché la continua confusione tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, mediaticamente e abilmente condotta ogni giorno, potrebbe un giorno far crollare tutto e precipitarci in nuovi e vecchi rovinosi totalitarismi.