Altalenante destino, quello del cinema Tedesco, non molto diverso da quello italiano. Un grande passato (il cosiddetto – nel 1962- Nuovo Cinema Tedesco), un fuoco d’artificio che faceva ben sperare ma si è spento troppo in fretta (il cinema turco-tedesco con la vittoria di Fatih Akin alla Berlinale 2004), qualche grande personaggio ancora capace di fare grande cinema (Herzog su tutti) e qua e là qualche meteora che fa notizia ma poi scompare (Lola corre, Good-bye, Lenin). Nel mezzo una vasta produzione dignitosa ma quasi esclusivamente destinata al mercato interno perché troppo spesso cerebralmente solipsistica o rifugiatasi con una certa superficialità nelle categorie di genere (e le pellicole tedesche in concorso all’ultima Berlinale ne sono state purtroppo un esempio).
Quello che allontana anni luce il cinema tedesco da quello italiano è però lo sforzo produttivo che ne costituisce il fulcro: le pellicole vengono sempre e comunque distribuite al cinema e poco dopo acquistate dalla televisione, sono considerate un prodotto su cui si è speso e come tale devono essere un investimento. Di questa politica virtuosa fanno parte le scuole di cinema, i cui saggi finali sono molto spesso di tale livello da essere invitati anche nei festival di tutto il mondo, come è stato il caso del primo lungometraggio di Burhan Qurbani, Shahada (2009).
Opere prime giustamente valorizzate, perché spesso realizzate all’insegna dell’impegno di un cinema civile che anche in Italia, malgrado una situazione fortemente penalizzata a livello produttivo, non si è del tutto estinto, e si pensa prima di tutto a opere come Diaz di Daniele Vicari, allo stesso tempo “così lontano e così vicino” dal film di Qurbani We are young. We are strong”. Rostock, in un certo senso, e per gli spettatori da una certa generazione in su, è un altro luogo collegato ad episodi di violenza generalizzata e incontrollata, agli errori della politica e alla sconfitta della Storia. Cosa è successo a Rostock? Il nome evoca confuse memorie di violenza neonazista, di una città messa a ferro e a fuoco, di questioni razziali, ma esattamente cos’era successo? Niente di paragonabile a quanto accaduto a Genova nel 2001, lo diciamo subito, dove la violazione dei diritti umani e civili è accaduta prima di tutto per mano delle forze dell’ordine e sotto gli occhi di tutto il mondo, ma qualcosa di molto grave di cui tanti si sono dimenticati, ovvero alcuni giorni di violenza continua, vera e propria guerra civile tra gli abitanti di una cittadina della ex DDR e le forze di polizia, con il pretesto della incapacità dello stato di gestire una struttura di immigrati “richiedenti asilo” (così il termine tecnico) arrivata ormai al collasso per sovraffollamento.
Una violenza urbana di matrice neonazista e xenofoba che in Germania fa sempre più paura che in altri luoghi perché evoca sinistri fantasmi sempre presenti, figlia della crisi provocata dalla riunificazione nella ex DDR incapace di gestire i nuovi ritmi capitalistici dopo la prima ubriacatura di libertà.
Come Diaz, anche il film di Qurbani sceglie di focalizzare gli avvenimenti di una sola giornata (l’ultima, la più tragica) e distribuire il punto di vista sui fatti tra diversi personaggi: un gruppo di adolescenti annoiati e fascistoidi, una immigrata vietnamita in attesa del permesso di lavoro, un politico locale incapace di prendersi le sue responsabilità. La scelta di parcellizzare le vicende in un vasto numero di personaggi anche se ha il merito di tenere sempre alta la tensione, non sfugge però al sempiterno impulso tedesco al didascalismo: la struttura corale del film schiaccia i personaggi in una forzata bidimensionalità che sin dai primissimi minuti fa comprendere i caratteri (i buoni, i cattivi) e le dinamiche tra loro (chi si uccide, chi si innamora, chi denuncia, chi non reagirà). E se nella seconda parte, il film acquisisce maggiore respiro, malgrado il precipitare degli eventi, è perché finalmente il regista si prende delle pause non descrittive e quindi liriche. Contro l’eccesso di politically correct che deve continuamente bilanciare buoni e cattivi tedeschi, il personaggio più interessante risulta essere proprio l’adolescente Stefan,personaggio privo di sfaccettature caratteriali o evidenti rivalse sociali, figlio del politico incapace, ma solo ribelle senza causa e neanche un impulso freudiano al parricidio a giustificare la sua escalation di violenza.
Girato con notevole maestria tecnica che alterna grande eleganza formale ad uno stile più sporco e convulso con il precipitare degli avvenimenti, We are young. We are strong poteva risparmiarsi qualche metafora (il passaggio al colore con l’esplodere della violenza, dopo l’allucinato bianco e nero di quasi tutto il film, il politico che lava convulsamente la macchia sulla camicia senza riuscire a mandarla via) ma ci ricorda di una sera in cui la polizia, per ordine del governo, ha abbandonato al suo destino un edificio in fiamme pieno di extracomunitari indifesi e circondato da una folla composta in egual misura di neonazisti esaltati e di bravi cittadini che applaudivano i neonazisti. E anche se non ci è scappato il morto, il finale agghiacciante del bambino che tira un sasso contro la vietnamita (e contro la macchina da presa, e contro di noi che guardiamo) ci ricorda che potrebbe succedere di nuovo e anzi probabilmente da qualche parte del mondo sta già succedendo.