Il serial killer sembra proprio un serial killer. Non quelli dei film (anche se “abbiamo il nostro Hannibal Lecter!” esclama quasi giuliva la stampa locale) ma proprio quelli veri, che di solito tutto sembrano tranne assassini efferati. Sture Bergwall lo sa e per prima cosa decide di cambiare nome in Thomas Quick, chissà se così sarà più credibile, per il resto ha l’aria di un uomo assolutamente qualunque, garbato, intelligente, educato. È anche disperato, solo e depresso. Non è innocente, perché ha commesso atti di violenza, che per fortuna non hanno portato alla morte di nessuno, quindi vive pacificamente in un manicomio criminale. Ma siamo in Svezia e il manicomio criminale è assolutamente all’avanguardia, regna un pensiero psichiatrico “illuminato” che mira a capire la mente dei serial killer per individuare le cause della violenza e fare in modo che non si ripeta più. L’equipe psichiatrica è dominata dalla carismatica dottoressa Margit Norrell, convinta che un serial killer ripeta solo atti che ha visto compiere nella sua infanzia e che, una volta emersi dalla rimozione, gli impulsi omicidi non si presenteranno più. Un po’ come in certi film americani degli anni ’50 che cominciavano ad occuparsi di psicanalisi e psichiatria e la risolvevano facilmente, convinti che emersione del rimosso =immediata soluzione del problema (vedi il finale di “Marnie”: sei frigida, scopri che tua madre è stata una donnaccia assassina, ora puoi tranquillamente consumare con Sean Connery come niente fosse).
Sture Bergwall alias Thomas Quick un giorno della metà degli anni ’90 mentre fa una gita al lago con la sua operatrice (negli ospedali psichiatrici svedesi funziona così) improvvisamente dichiara di aver fatto una cosa molto brutta. Che cosa? Ha ucciso un bambino, misteriosamente scomparso qualche anno prima, di cui hanno parlato tutti i giornali. L’ho strangolato, stuprato e poi ne ho mangiato dei pezzi. Immediatamente viene sottoposto a nuove psicoterapie, aumentano le dosi delle benzodiazepine che già prendeva. Tutta la Svezia, quasi con sollievo, accoglie la presenza del “mostro” che finalmente ha un nome (o due?) e un volto. Poi Sture (o Thomas?) confessa un altro delitto, un adolescente scomparso da anni anche lui. Poi quello di una bambina, in Norvegia e poi il misterioso duplice delitto di due turisti olandesi in campeggio (che la Svezia non si più il paradiso in terra in cui tutti dormono con le porte aperte avevamo già cominciato a sospettarlo dopo “Uomini che odiano le donne” e ce lo conferma un altro film della selezione ufficiale, Girls lost, in cui tre quattordicenni a scuola vengono sottoposte a ogni possibile atto di bullismo).
Quasi come uno sciamano, il serial killer viene portato sui luoghi dei delitti dove li “ricostruisce” in maniera sconnessa e delirante sempre circondato da poliziotti e psichiatri nonché ripreso da telecamere (si vedono i filmati originali) e dopo gli offrono pranzi che si concludono con tanto di sigari. Curiosità, interviste, riprese, libri scritti su di lui, attenzione dei terapeuti e medicine a profusione. Finchè un nuovo medico non toglie a Thomas (o Sture?) le benzodiazepine e lui decide di non parlare più con inquirenti e psichiatri. Tace per sette anni fino a quando non incontra un giornalista che decide di riaprire il suo caso.
Girato quasi esclusivamente con materiali originali (filmati tv, interviste, riprese) alternati a ricostruzioni molto sobrie e credibili, The confessions of Thomas Quick sembrerebbe invece sin dall’inizio un brutto “mockumentary”, uno di quei falsi documentari spesso verosimilissimi che sono divenuti un genere di grande successo. Viene il sospetto che siano tutti degli attori, neanche tanto bravi, e che il regista inglese Brian Hill si sia inventato tutti e ci stia anche grossolanamente prendendo in giro. Invece è tutto vero. O meglio, come in Capturing the Friedmans di Andrew Jarecki, ci sono crimini precisi che si trasformano in una caccia alle streghe. È vero che psichiatri, inquirenti, giornalisti, magistrati hanno creduto alle bugie neanche troppo ben raccontate di un uomo solo e triste che aveva bisogno di grande attenzione e per almeno 15 anni lo hanno voluto credere con tutte le loro forze il mostro che non era. Perché hanno fatto carriera nelle rispettive professioni grazie al fenomeno Thomas Quick e perché questi, quasi come una sorta di figura cristologica, si è preso su di sé le colpe di efferati omicidi o tragiche sparizioni, annullando da un punto di vista strettamente giudiziario tutti i casi insoluti della polizia svedese. Chi non avrebbe voluto un serial killer così, da redimere poi con illuminato fervore psichiatrico? La storia vera si trasforma in un thriller pirandelliano in cui non ci sono certezze, a partire proprio dal nome del protagonista.