Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
(da “Poesie” di Sandro Penna).
È in omaggio al poeta del novecento che il regista Gianni Amelio, in un tardivo ma pur sempre coraggioso (probabile) outing, realizza il suo film documento sulla realtà maschile ed omosessuale. E lo fa a partire da un periodo significativo – il fascismo – fino ad arrivare ad oggi -d’altronde Amelio è uno dei pochi registi italiani del tutto scevro da involute tendenze intimistiche. I personaggi intervistati sono tantissimi e di varie estrazioni sociali, uomini provenienti da tutta la penisola che Amelio ha percorso regione per regione, dall’estremo sud al nord. Sono tutti uomini maturi e addirittura anziani, in grado di darci un volto ed un aspetto della storia italiana maschile forse più veritiero rispetto a sceneggiature cinematografiche inerenti al tema. In effetti, i versi della poesia di Penna esprimono la disgrazia, in questo nostro paese, di essere un diverso – dalla persona comune. A conferma, ho presente il parere di conoscenti che, discorrendo di stilisti gay con un velato senso di nausea, rincaravano la dose parlando del figlio della vicina di casa.
E proprio tra le persone comuni –tante– alcune interviste colpiscono particolarmente.
Uomini molto anziani richiamano il fascismo e le isole nelle quali venivano confinati perché omosessuali – Ustica, Favignana, Lampedusa e poi le Tremiti come approdo finale. Lì loro lavoravano ma comunque vivevano come carcerati, colpevoli della propria condizione, del loro semplice stare al mondo. Di rimando, le immagini dell’istituto Luce ci riportano l’esaltazione della virilità maschile, raffigurata nelle statue del foro italico.
C’è chi ripercorre la propria esistenza puntellata di ferite da ripudi familiari, da stenti, da maltrattamenti, da denigrazioni e da umiliazioni, situazioni per lo più diffuse e comuni, normali.
Abbiamo un ricordo divertito di un “travestito” all’interno di una casa di tolleranza prima della legge Merlin, con lui che ci mostra orgoglioso le fotografie. Una coppia nordica di gay benestanti ed affermati si reputano fortunati ad essersi incontrati, anche se vorrebbero ci fosse una legge che permetta di adottare figli o si sposarsi.
Un “femminiello” napoletano discorre sulla fierezza di sentirsi tale, non apprezza il termine gay che, come la luce di un neon, appiattisce le ombre e rende tutto grigio.
C’è la tenera testimonianza di un uomo, visibilmente affetto da Parkinson, che, ascoltando 45 giri in un vecchio mangiadischi ci rilegge – situazione già più volte compiuta – l’unica lettera inviata, nella quale dichiara la sua diversità. In realtà si comprende che l’assenza d’amore, nel quotidiano dell’anziano, deve aver dettato il passo, lo stesso amore che invece leggiamo da spettatori nel suo sguardo, paradossalmente giovane e puro, osservandolo sussurrare una vecchia canzone.
Ma non manca neanche la rivelazione degli amori clandestini nei bagni pubblici o addirittura su di un bus dove, d’intesa con un bel tipo, per la prima volta e di nascosto, “glielo presi in bocca”, dichiara un distinto signore.
Ma ci sono anche molte dichiarazioni di gente dello spettacolo; dal mitico Paolo Poli, che ribadisce i suoi unici, felici incontri occulti e fugaci, alle dichiarazioni di Ninetto Davoli, a proposito del “magnetismo” di Pasolini. Rivediamo Bindi, autore di splendide e famose canzoni ed uno sconosciuto personaggio della politica, che ribadisce la diffusione dell’omosessualità in tutta la politica. C’è John Francis Lane, vecchio attore presente nel film “Il sorpasso”, dove pure si assiste, riproposta, alla famosa scena nella quale un Gassman spocchioso spiega ad un giovane Trintignant il significato del soprannome “occhio fino” – ovvero finocchio. E da lì in poi la vasta gamma di articoli giornalistici – soprattutto tratti da testate scandalistiche e dal “Borghese”, nota rivista di destra – e nomignoli offensivi all’indirizzo degli omosessuali – invertiti, froci, pederasti, pervertiti, recchioni e via dicendo. Ed i vecchi filmati, sempre offensivi, dei posti nei quali gli omosessuali si incontravano, ma dove venivano anche raggiunti da giornalisti per qualche volgare, ma pur sempre valido, scoop. Alcune carriere messe in ombra da una presenza “ambigua” e poco accettata – in Gran Bretagna per John Gielgud – o fuori tempo, in altri casi.
C’è la testimonianza finale, malinconica, rabbiosa e nostalgica di un vecchio transessuale il cui unico rimpianto è quello di aver rinunciato al proprio sesso “perché ora sesso non esiste più!” dichiara.
È un lavoro di pregio quello di Amelio, il controcanto di una vita taciuta, Amelio insomma dice quello che va detto, anche se oggi forse è più facile vivere da diversi. Ma non proprio così tanto facile. Le correnti di pensiero sull’omosessualità sono differenti, Amelio sembra affrontarne solamente l’aspetto più sofferto, quale quello fino ad oggi maggiormente diffuso, così che la totale mancanza di riconoscimento di diritti rimane sullo sfondo. Ma sicuramente emerge l’afflizione di generazioni nascoste, oppresse dal peso concentrico di cattolicesimo e maschilismo sessista.
Le parole finali dell’unico giovane gay che compare nel film, ragazzo dei nostri giorni, confermano la realtà statica dell’argomento. Si vivrà alla giornata, in attesa che le cose cambino in meglio. Con molta speranza.
Il film accompagna i titoli finali con un testo bellissimo con la musica di Roberto Murolo, un pezzo cantato con Mia Martini: Cu’ mme; e dice molto, riprendendo le fila del documento.
Vieni con me, in fondo al mare a cercare quello che non abbiamo qua; vieni con me e comincia a capire com’è inutile soffrire; guarda questo mare che ci infonde paure, ci sta insegnando.
Ah, come si fa a dar tormento all’anima che vuol volare, se non tocchi il fondo non puoi saperlo…
canzone meravigliosa.. meravigliosa Mia Martini
Anche andando ancora più indietro nel tempo, Gianni avrebbe trovato altri mari in cui tuffarsi per intravedere le anime di chi visse l’impossibile vita da “diversi”. Mauro.