di Maria Giovanna Vagenas

CONVERSAZIONE CON MATTHEW RANKIN

Universal Language di Matthew Rankin

Universal Language di Matthew Rankin è senza dubbio, tout court, uno dei film più sorprendenti di quest’anno. Una vera gemma, in cui l’assurdo si mischia con una visione umanista e gentilmente comica del mondo per creare una fiaba sulla nostra capacità di vivere insieme superando quelle che consideriamo essere delle barriere culturali, ma che in realtà non lo sono, se ci si concentra sull’essenziale; i sentimenti, e gli aneliti che sono uguali per tutti, in qualsiasi parte del mondo. Delicato e incredibilmente originale il linguaggio universale del cinema sviluppato da Matthew Ranking ha saputo commuovere ed entusiasmare tanto i critici che un vasto pubblico intorno al mondo. Il suo viaggio trionfale è iniziato alla Quinzaine des Cinéastes dove ha vinto il primo, fra i suoi numerosissimi premi, il premio del pubblico. Universal Language è anche l’entry del Canada per gli Oscar.

Ho incontrato Matthew Rankin al Festival di Salonicco dove Universal Language ha vinto il Golden Alexander della Film Forward competition.

L’idea di Universal language è nata qualche anno fa e poi hai iniziato a scrivere la sceneggiatura insieme a Pirouz Nemati. Potresti parlarci della vostra collaborazione?

È stata una lunga conversazione, tuttora in corso, prima con Pirouz Nemati e poi anche con Ila Firouzabadi, la nostra collaboratrice. Tutto è iniziato, direi, con una storia dell’infanzia di mia nonna che è cresciuta a Winnipeg durante la depressione. Lei e suo fratello trovarono una banconota di 2 dollari congelata nel ghiaccio sul marciapiede ed intrapresero una vera e propria odissea in tutta la città per tirarla fuori ma alla fine furono truffati da un vagabondo. Fu una vera e propria lezione di vita per lei perché forse il vagabondo ne aveva più bisogno di mia nonna e di suo fratello, anche se la loro famiglia era molto povera. Comunque sia, questa storia mi è sempre piaciuta. Poi, molto più tardi, ho scoperto tutti i film prodotti dal Canon Institute – l’Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e dei giovani in Iran – al quale dobbiamo i grandi classici del cinema iraniano, molti film di animazione, alcuni documentari. Kiarostami stesso ha iniziato lavorando lì. Molti di questi film parlano di bambini che affrontano dei dilemmi da adulti, che devono cavarsela in un mondo di adulti, e spesso sono chiamati a mostrare una saggezza di cui gli adulti non sono capaci. Sono film molto poetici, umanisti che di solito parlano della nostra responsabilità personale e del nostro dovere verso gli altri ma non lo fanno mai in modo didattico. Sono film che ho amato molto e che hanno avuto un profondo impatto su di me da giovane.

Avevo un’amica iraniana in Canada e quando ero adolescente mi ha portato a vedere tutti questi film. Una cosa che mi ha davvero toccato è che in questi film c’era come un riflesso della storia di mia nonna. Ho trovato molto commovente il fatto che l’esperienza mia nonna, che aveva vissuto tutta la sua vita a Winnipeg e che non aveva mai conosciuto l’Iran, trovasse una sorta di eco in questi film iraniani provenienti, letteralmente, dall’altra parte del mondo. Questo nesso era molto eccitante per me, era qualcosa che faceva appello ai miei sentimenti di idealismo, internazionalismo e transnazionalismo.

L’idea originale del film era quindi quella di raccontare la storia di mia nonna utilizzando il linguaggio formale di questi film iraniani, che hanno una sorta di grammatica e di sintassi specifica che trovo molto affascinante. In altre parole: volevo raccontare la sua storia attraverso quel linguaggio cinematografico. All’inizio ho scritto una prima versione di una storia composta di tre sezioni diverse. Fra queste c’era una parte che riguardava un po’ mio padre. Mio padre era un grande sostenitore della storia e della cultura di Winnipeg. Era molto orgoglioso di tutti i monumenti, onestamente insignificanti, di Winnipeg e portava la gente in giro ad ammirarli. Era un grande fan di questa città e questo era un aspetto del suo carattere che, crescendo, ho affrontato con molta ironia. Ma quando mio padre è morto il mio rapporto con questo tipo di cose è cambiato. La terza storia riguardava me stesso, il che, a ben vedere, è anche una specie di tema ricorrente in questi film iraniani in cui il regista spesso entra, come personaggio, a far parte della finzione. Questo era il terzo tassello della vicenda. Avevo questo tipo di storia in mente e poi il mio produttore Sylvain Corbeil ha incontrato Pirouz Nemati e me lo ha presentato.

Quando è successo?

Parecchio tempo fa, nel 2012, c’è stato un primo tentativo di finanziare il film. Sylvain Corbeil che, come dicevo, è poi diventato il produttore del film mi ha messo in contatto con Pirouz. Siamo diventati amici molto rapidamente ed è iniziata questa lunga conversazione fra noi due. Pirouz era convinto fin dall’inizio che avremmo dovuto girare il film in farsi, una cosa che ho trovato subito molto eccitante. Ho iniziato a chiedermi: perché il film dovrebbe essere in inglese? Perché dovrebbe essere in francese? In fondo, non ha molta importanza. Voglio dire, è solo un film! Mi piaceva l’idea di un’appartenenza “espansiva” per così dire: l’idea che ci sia un senso di connessione più ampio e profondo e che sia possibile collegare l’eco della storia di mia nonna a questi film iraniani. Si trattava di connettereytf questi elementi e di creare un nuovo modo di guardare le cose. Abbiamo pensato che sarebbe stato divertente mettere insieme questi due universi perché, in un certo senso, è un po’ assurdo, ma anche il mondo in cui viviamo è fondamentalmente assurdo. Coesistiamo, per quanto ci possa essere della distanza e immaginiamo o insistiamo sul fatto che siamo tutti vivi qui sulla terra nello stesso momento, il che è incredibile! Questo film è stato un modo per imparare a guardare il mondo diversamente.

Sono d’accordo con te. Possiamo essere diversi per ragioni culturali e storiche, e geograficamente parlando, possiamo essere molto lontani ma, fondamentalmente, i sentimenti umani sono ovunque gli stessi ed è per questo che siamo in grado, nonostante tutto, di comunicare tra di noi. In questo senso Universal Language è un film emozionante. Mi chiedo come tu e Pirouz Nemati abbiate lavorato concretamente alla sceneggiatura.

Quello della scrittura è stato un processo molto organico. All’inizio, come ho detto prima, abbiamo lasciato questa storia per un po’ in sospeso, ma abbiamo continuato a pensarci.  Pirouz ed io abbiamo lavorato insieme ad un cortometraggio nel 2019 e abbiamo iniziato a pensarci un po’ più concretamente in seguito. Poi, quando è arrivato il momento in cui Sylvain poteva produrre il film ed era pronto a cercare i fondi abbiamo riscritto l’elemento più autobiografico del film, il filo conduttore che riguardava me e che doveva essere il più attuale possibile. Proprio in quel periodo era morta mia madre, io avevo finito il mio primo film ed ero pieno di debiti, così ho lavorato per il governo canadese per un anno. Questi due eventi sono entrati a far parte della narrazione. Poi abbiamo iniziato a lavorare con Ila sui dialoghi. Molte scene non erano necessariamente scritte ma erano solo disegnate. Avevo fatto uno storyboard molto dettagliato e molte cose sono state messe a punto nella sceneggiatura mentre disegnavo.  Anche durante le riprese c’erano dei brevi pezzi di dialogo e delle piccole idee che ci venivano in mente mentre ci trovavamo in una location e ci guardavamo intorno, emergevano così delle cose che ci divertivano e c’interessavano. L’esempio più significativo è quello del venditore di tacchini che canta alla fine del film. È una cosa che è successa in modo molto naturale. Bahram Nabatian è arrivato per le riprese e ci ha detto: “Ieri sera mi è venuta l’idea di cantare per voi. Vorrei cantare una poesia persiana classica!”. L’unica cosa che ho fatto è stata quella di cambiare le luci. Ho fatto in modo che fosse notte invece che giorno, poi lui ha cantato e noi abbiamo filmato quello che voleva fare e quando ha finito lui ci ha detto: Cut! Abbiamo girato un rullo di pellicola ed è stato molto emozionante. Ma in quel momento nessuno di noi sapeva come questa scena si sarebbe potuta integrare nella storia, avevamo solo la sensazione che l’avremmo utilizzata in qualche modo.

È così che mi piace lavorare. Quello che mi diverte nel cinema è la collaborazione. Il cinema è una forma d’arte estremamente collaborativa, questo è certo, anche se tendiamo a dimenticarlo. Il regista crea solo una sintesi, perché è necessario sintetizzare tutti questi elementi, ma il cinema è essenzialmente un’espressione collettiva. Ci credo realmente e quando tutti i collaboratori esprimono veramente se stessi attraverso ciò che stiamo realizzando insieme, allora l’opera prende davvero vita. Non credo nelle collaborazioni meramente commerciali in cui si viene pagati per svolgere semplicemente un lavoro tecnico. Per me il cinema è un’impresa spirituale.

Come descriveresti il processo creativo di Universal Language?

Ho realizzato questo film con i miei amici più cari ma  anche delle persone che non si conoscevano all’inizio sono diventate molto amiche durante la lavorazione del film. I due musicisti, ad esempio, che hanno realizzato le musiche, non si conoscevano affatto e li ho messi insieme artificialmente. Amir Amiri, un maestro del santur, la musica classica persiana, e Christophe Lamarche-Ledoux, un musicista di musica elettronico- ambient franco-canadese, non potevano, alla base, essere più diversi l’uno dall’altro. Ho pensato che insieme avrebbero creato un nuovo suono; non si conoscevano, ma lavorando insieme si sono ‘innamorati’ l’uno dell’altro. Ora hanno iniziato un nuovo progetto musicale insieme, diverso da quello che hanno creato insieme per il film. Mi sembra un fatto singolare e bellissimo, e mi commuove molto. Questa è la sensazione che si prova quando si lascia molto spazio creativo ai propri collaboratori e poi si mettono insieme tutte queste contribuzioni con attenzione e si calibra il tutto in modo che ognuno abbia qualcosa da dire su ciò che stiamo realizzando nel complesso. A quel punto avvengono i miracoli. Questo è stato il caso di Bahram Nabatian; ha cantato per noi e adesso la sua scena è diventata imprescindibile per il film. Quindi gran parte della scrittura si è sviluppata in questo modo; c’erano delle cose impreviste che accadevano e delle idee nuove che ci venivano in mente e la sceneggiatura si adattava ad esse.

Maria Giovanna Vagenas

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