[***] – Il titolo italiano di questo piccolo grande film di Jonathan Levine, premiato dal pubblico come miglior opera drammatica al Sundance Film Festival, acchiappa bene il tema sotterraneo della pellicola – neanche tanto sotterraneo, in verità. E forse lo fa meglio del più azzeccato ma intraducibile The Wackness, almeno secondo una chiave di lettura che provi a scavare nel sottotesto: il concetto di moralità nella società contemporanea, i suoi fragili confini culturali, il diritto della società di imporre regole che possono valere per una maggioranza ma necessariamente finiscono per opprimere minoranze significative, e forse – esageriamo – il diritto stesso di una società ad esistere in quanto tale.
Il giovane pusher mezzo sfigato Luke Shapiro (Peck) e il suo psichiatra disadattato Squires (Kingsley) intraprendono una sorta di percorso di formazione fra droghe, alcolici e sesso proibito nella rovente estate newyorkese del 1994. Una città che si sveglia nell’era Giuliani e si scopre proibizionista, reazionaria e asfissiante come la canicola che appiccica i vestiti addosso agli scanzonati protagonisti. Il rap e l’hip-hop rappresentarono allora la maniera attraverso la quale le nuove generazioni gridarono la loro protesta nel selvatico sottobosco della vitale metropoli americana. Ma per i loro vecchi le speranze sembravano colare a picco, man mano che gli stessi sogni psicotropi di libertà degli anni sessanta naufragavano sotto le mazzate del sindaco “tolleranza-zero” o venivano rinnegati dai loro stessi protagonisti – che è una morte un po’ peggiore. Così l’immagine mediocre e la sorte infima degli adulti di questo film – pur se calcata parecchio dalla giovane mano di Levine – esce massacrata dal confronto con la vitalità rimbecillita dei ragazzi protagonisti. Sono tutti fumati e rintontiti, è vero, e pure parecchio conformisti, volendo, ma sono disposti a rischiare in prima persona per trovare una via di uscita dall’alienazione indifferente della grande metropoli. Non a caso l’unico adulto a cavarsela è proprio lo psicotico Dr. Squires, compagno di trip dell’allucinato Luke e più immaturo di un bambino immaturo.
Alcune scene del film strappano risate sincere – su tutte l’iniziazione al sesso di Luke da parte dell’affascinante figliastra di Squires, Stephanie – e la simpatia dei protagonisti buca lo schermo, perché la pellicola scorre ironica e senza melodramma fino alla fine, sebbene i temi trattati presentassero grossi rischi. A qualche minuto dalla conclusione un po’ di timore che il regista-sceneggiatore non sappia come farla finire c’è, ma poi la sbandata rientra. Finisce come deve, senza troppe concessioni, e chi si salva lo fa solo perché comprende che nella vita, a qualunque età, bisogna sempre cominciare di nuovo per non morire.
Il tutto in una New York sempre splendida sul grande schermo, il luogo dove davvero tutto può accadere, fotografata benissimo da Petra Korner, che sa renderla calcinata e tremolante sotto l’impatto del sole estivo, sa far apparire l’elegante Upper East Side come un fumoso intreccio di bloks da bassifondi, e non ha nulla in comune col glamour anni settanta di Woody Allen. Sembra un’altra città. Una New York filmata con un certo talento dal regista, che per la maggior parte del film coglie nel segno, insistendo sui primissimi piani e sui movimenti di macchina. E in questo modo riesce a far sembrare normale anche allo spettatore il sovraconsumo di anfetamine, marijuana e droghe varie, l’abuso di alcolici, i tags sconclusionati sui muri lerci e sulle vetrine, le parolacce e il gergo, insomma tutto l’universo nascosto sotto lo strato superficiale della borghese America. Che nel ’94 somigliava tanto al nostro italico presente.
Quindi tiriamo pure fuori la matrice politica di questo film e limitiamoci anche solo al cinema e alla televisione. L’Italia non conosce una rivolta artistica come quella che solo una potente macchina multietnica, intrisa di discriminazione e povertà diffusa, può generare, e quindi la sensazione di sprofondare lentamente senza che nessuno colga il nostro grido di protesta è forte. Shapiro è scemo, ma pensa troppo, difetto che, ahimé, i coetanei nostrani non hanno. Sopraffatti di regole in cui non crediamo, frutto di paure xenofobe e chiusure culturali, intorpiditi da programmi per deficienti, come sperare di fare una cosa sbagliata, ma viva… o almeno una cosa? Come sperare in un po’ di coraggio artistico, di sincera brutalità narrativa, per provare ad alimentare qui da noi la creatività che ha salvato l’America anni ’90 dalla nostalgia? Infatti non ci speriamo. Aspettiamo intristiti la prossima stagione dei Cesaroni e vediamo che succede.