Secco, urgente, forte, ambizioso: Et in terra pax, opera prima di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, si addentra nel territorio cinematograficamente minato della periferia metropolitana, già esplorato da nomi illustri (Pasolini e Kassovitz su tutti, ma nemmeno gli unici né gli ultimi) con una buona dose di coraggio e di lucidità. Lontano dallo spirito di denuncia che ha segnato la breve stagione del neo-neorealismo italiano negli anni Novanta, il film d’esordio dei due giovani registi romani sembra piuttosto collocarsi sul versante di quell’autorialità indipendente che oggi stenta a trovare spazio e, dunque, visibilità nei circuiti spesso inaccessibili e monopolizzati del mercato nazionale. Et in terra pax è stato in effetti ardentemente voluto, sofferto nella sua gestazione produttiva e distributiva che ha fatto perno sugli impegni economici di piccole società emergenti e sulla cooperazione dell’intero cast tecnico e artistico. L’intero progetto, concepito e realizzato necessariamente in low budget, sorprende invece per le sue qualità estetiche e stilistiche d’insieme, trovando una curiosa ed efficace assonanza con la cruda realtà dei suoi contenuti.
E’ una storia dura e scarna, infatti, quella raccontata nel film: Marco torna a casa dopo cinque anni di galera. Ad attenderlo nel modesto appartamento del Serpentone di Corviale non c’è nessuno. La moglie non ha resistito alla lontananza e presto lo abbandonerà con rancore. Gli “amici” di sempre, Glauco e Mauro, cercano immediatamente di reinserirlo nel losco giro della droga che gli è costata la lunga detenzione. Deciso a cambiare vita, Marco, inizialmente, rifiuta la proposta, e si ripara dalla tentazione dei soldi facili trascorrendo intere giornate seduto su una panchina ad osservare il nulla che lo circonda. Sonia, iscritta all’università, cerca di emanciparsi dalla famiglia chiedendo lavoro a Sergio, proprietario dell’unico bar della zona. Riuscirà ad ottenerlo, ma non a guadagnarsi la stima e il rispetto del viscido commerciante, e nemmeno le attenzioni di Marco che, nel frattempo, ha abdicato ai buoni propositi iniziali ricominciando a spacciare. Tre adolescenti, Faustino, Massimo e Federico, uccidono il tempo vagando senza meta sul motorino, sniffando cocaina e abbronzandosi di noia nel tragico, squallidissimo, anfiteatro del quartiere. I destini di questi moderni accattoni si incontreranno nella spirale di violenza che porrà fine, senza alcuna catarsi, alle proprie esistenze dimenticate.
Addentrandosi nelle viscere del “mostro urbanistico” di Corviale i personaggi vengono immortalati nella loro avvilente quotidianità fatta di noia, abbrutimento e solitudine. Una solitudine mascherata, per esempio, da un falso comunicare, da uno scambio di informazioni assolutamente inutile, da un ridere stanco che nasconde, in verità, lacrime di frustrazione e di rabbia implose. Le immagini opprimenti, inevitabilmente simboliche del Serpentone, spazio intrinsecamente cinematografico, e il racconto orizzontale di una vita che non scorre, trasmettono sentimenti di angoscia asfissiante, attutiti però dalla leggerezza di alcune situazioni in cui il linguaggio borgataro, artefatto e paradossale dei personaggi, introduce curiosi elementi di comicità. La compattezza dello stile, coadiuvato dall’ottima fotografia di Davide Manca, rimane omogenea anche laddove la scrittura, nella seconda parte, perde un po’ di coerenza nel succedersi rapido di alcuni snodi drammaturgici che convergono in un finale per nulla consolatorio. Se, come abbiamo detto, il film evita accuratamente i toni della denuncia sociale, è altrettanto vero che lo sguardo complessivo tende ad allontanare i particolarismi per tradursi nei codici di un linguaggio più universale, in cui si narra la storia della grande periferia del mondo. E dunque la musica, il secondo movimento del Gloria di Vivaldi , quel sacro Et in terra pax del titolo che si pone in netta antifrasi con la terrena profanità del soggetto, imprime alla vicenda una tragicità esistenziale condivisa e anti ideologica. Un messaggio accolto bene dal pubblico di mezzo mondo, quello dei festival cui ha partecipato quest’opera prima, “spartana” e convincente.