di Armando Andria, Alessia Brandoni, Fabrizio Croce
È stata la mano di Dio, l’ultimo film di Paolo Sorrentino, distribuito quasi in contemporanea sia nelle sale cinematografiche che su Netflix, amplificando la possibilità delle visioni, ha aperto a confronti e riflessioni che hanno abbracciato in una prospettiva più ampia il significato dell’atto di vedere e filmare qualcosa che ci riguarda profondamente e da vicino: il tempo e lo spazio della memoria, del dolore e della perdita, ma anche la rivelazione e la trasformazione del proprio sguardo su ciò che lo circonda, la costruzione e il senso di un immaginario. E per farlo Sorrentino ci parla di un trauma personale e assoluto come l’inaspettata scomparsa dei suoi genitori quando era solo un adolescente con gli occhi in procinto di spalancarsi sul mondo. In questa conversazione a tre proviamo a confrontarci con i sentimenti e i pensieri che il nucleo così intimo e sincero di questo film ha suscitato in noi.
Fabrizio Croce: Per me è stata una visione contrastante e problematica (come tutte le visioni del cinema di Sorrentino): la prima parte, quando fa sfilare il solito parterre di volti e situazioni ora grottesche ora oniriche in variante domestico-familiare all’Amarcord d’accatto, mi ha irritato fino quasi a interromperne la visione, poi ho capito che quel formalismo un po’ stantio preparava quasi propedeuticamente alla cesura della seconda parte che ha dei momenti di grande verità, a partire chiaramente dalla morte dei genitori; la rabbia, generata dal dolore e dall’impotenza, mi è arrivata come un colpo assordante, lì non si bara, si sente che si tratta della sua carne, della sua storia. Mi ha coinvolto anche il momento in cui appare Antonio Capuano ma in quel caso riguarda qualcosa di più personale, che riguarda noi, di quanto siamo legati a lui e al suo cinema: quando, dopo il concitato colloquio con Fabietto, si tuffa in mare, mi sono commosso.
Alessia Brandoni: “Fatemeli vedere! Fatemeli vedere! Li voglio vedere…”, lì per me c’è molto. Il dolore di una perdita improvvisa e insanabile. Il cinema come modo di mettere in rapporto il visibile con l’invisibile. La morte come vulnus e insieme scaturigine dell’opera. Un tema grande – da dove viene l’arte, sembra, e da quale luogo provengono il dolore e la mancanza che attivano la ricerca, forse – che l’autore mette in scena in modo particolare (singolare), insieme realistico e simbolico. A me il film è piaciuto.
F.C.: La cosa che mi è piaciuta di più di quel momento è che non c’è più sublimazione o consolazione, ma solo un desolante, disperato campo lungo…
A.B.: Per me lungo fino al punto di trasformarlo in desiderio di ritrovare quell’assenza, tramite il cinema. E quindi una parte di sublimazione forse ci sta…
F.C. : Desiderio incarnato precedentemente dalla scena sulla barca con il corpo nudo, strabordante e meraviglioso di Luisa Ranieri, da quegli occhi pieni di luce.
A.B.: Sì, ma anche dal corpo (generoso) della donna anziana… La zia a me pare rappresenti purtroppo l’isteria… Che proviene dalla violenza e dal pregiudizio. E a queste prevaricazioni e ossessioni possessive reagisce come può. Il suo è un corpo che soffre e che scava mancanze nello sguardo dell’altro, a me sembra, pur nella sua bellezza e sensualità. Il fuori campo di Patrizia nuda con in campo mezza barca piena di gente che la guarda è proprio Cinema, in ogni caso!
Armando Andria: Sicuramente mille passi avanti rispetto agli ultimi quindici anni della sua filmografia. Finalmente i movimenti di macchina tornano ad approdare da qualche parte (la scena in ospedale esempio perfetto), finalmente i dialoghi non sono sistematicamente troncati per alludere a misteriose, sottaciute (in realtà inesistenti) verità. Quasi un film classico: racconto, personaggi, sentimento. Certo, sempre a scene dimostrative va avanti. E certo, alcuni eccessi anche boh (la vecchia zia volgare impellicciata). Insomma la sua letale tendenza alla gag qui la limita ma di certo non la estirpa. Però, come bene avete detto voi, finalmente un film nuovamente ad altezza-uomo.
A.A: Invece per me punto davvero dolente è proprio la questione Capuano. Che mi sembra usato. Ridotto a macchietta, involgarito. Messo in scena per incarnare la voce che rappresenta nel cursus di Sorrentino ed esorcizzarla, così che Sorrentino possa mantenere lindo il proprio percorso. Le parole che il suo personaggio urla prima di tuffarsi cambiano fatalmente di segno alla luce di un senno di poi tombale, di cui Sorrentino è ben consapevole: nel 2021 Fabietto è diventato PAOLO SORRENTINO, Antonio Capuano è rimasto Antonio Capuano. Quelle parole dissolvono in un’eco lontana. Ci vedo qui tutta l’asimmetria tra il giovane potente e il vecchio regista che fa film per dieci gatti (tanti sono gli spettatori nel cinema in cui Fabietto va a vedere il film di Capuano): il primo in fondo può fare quello che vuole, l’altro non potrà smarcarsi da questo “omaggio subìto”, che forse gli consegnerà un piccolo guizzo di notorietà tardiva. Ci vedo della violenza. Colpisce tra l’altro che in un film tutto ispirato a una storia vera, tutti i nomi siano finzionali tranne quello di Capuano. Che quindi dovrebbe essere “proprio lui”.
A.A: Dall’intervista che ha rilasciato al Venerdì qualche giorno fa, mi pare tra l’altro che Capuano prende a modo suo le distanze dal film.
A.A.: Quindi un po’ di rabbia “di classe” la provo verso un cinema di potere che pretende di conoscere, metabolizzare e superare, e aggiungerei anche oltraggiare, il cinema di strada, il cinema fatto con poco-niente, il cinema che non serve a niente (perché lo vedono in pochi). Da qui il sentimento che questo è stata la mano di Dio ci convochi su una barricata e ci spinga a prendere posizione rispetto a: per quale cinema parteggiamo.
F.C.: Io trovo invece che rispetto a Capuano Sorrentino mantenga un’ambiguità e un’ambivalenza che danno un senso al loro incontro: probabilmente è vero come dici tu che un po’ rivendica uno status, che lo ridimensiona, ma il movimento di Fabietto/Paolo, quello che lo scuote dal suo torpore è generato anche da quell’impatto. Per me Capuano è un po’ il suo demone o il suo fantasma e al tempo stesso una pulsione di vita, una maschera, una sorta di pulcinella apocalittico (“si torna sempre al fallimento”) che gli tira via quella patina piccolo borghese di voyeur e lo fa confrontare con la sua verità più profonda e scomoda (“non me li hanno fatto vedere”, frase chiave come diceva anche Alessia, lo dice in ospedale e davanti a Capuano, appunto). Che Sorrentino a questo squarciante contatto con la (sua) verità risponda con una forma di distanziamento attraverso una stilizzazione grottesca (che se ci pensi, almeno a mio avviso, diventerà anche il suo limite e la forma di rimozione del suo cinema da quel punto in poi) verso la persona/personaggio Capuano. E sinceramente, avendolo conosciuto e intervistato, trovo che anche Antonio si celi talvolta dietro l’iperbole della provocazione dentro la quale sono contenute una contraddizione e una complessità che ritrovo devastanti nelle sue immagini. Sorrentino ad esempio per spiegare il suo turbamento di fronte al cinema di Capuano fa vedere la figura di un uomo appeso a testa in giù che rimanda a quella di Fabrizio Bentivoglio in Pianese Nunzio 14 anni a maggio: ecco, per me questo è sintomatico di un immaginario che lo attrae e respinge al tempo stesso.
A.A.: Capisco quello che dici ma forse quello che mi dà fastidio è proprio la riduzione del personaggio di Capuano a maschera, alla stregua di tutte le altre figure del cinema di Sorrentino, come fosse il papa nella serie o Andreotti nel Divo; una maschera che esiste solo in quanto proiezione sua, insomma non c’è Capuano lì ma il fantasma.
F.C.: Io penso che ci siano entrambi le cose: il fantasma e la pulsione, il fallimento e la possibilità. Alla fine, per me si ritorna al corpo di Capuano che si tuffa nel mare.
A.B.: A me sembra, se ho letto bene in un’intervista, che l’Altro si sia negato, invece, e nel modo più radicale: non ha visto il film! Capuano rimane l’idolo impossibile! Sul potere, penso che sia (quasi sempre) un rapporto, non privo di ambiguità, come dice Fabrizio, più che uno schieramento in cui prendere, idealmente, una posizione esemplare e fissa. E poi, oltre all’evidente omaggio al suo maestro, alla fine mi pare ci sia anche un piccolo monito rispetto a certi atteggiamenti provocatori ed eccessivi, che possono far male (il primo piano, giusto un istante ma incisivo, in cui si vede l’attrice in lacrime dopo l’umiliazione subita a teatro).
F.C.: Sì, anche in quel caso comunque Fabietto/Paolo mostra questa attrazione/repulsione perché insegue Capuano dicendogli che è sconvolto in quanto non immaginava che a teatro si potesse fare una cosa del genere, cioè alzarsi e protestare contro gli attori in scena. E’ qualcosa che può sembrare un moto d’ammirazione ma, come dice Alessia, sottotraccia esprime anche un monito, una puntura di spillo, mi chiedo solo quanto dettata in Sorrentino da una forma di empatia verso l’attrice maltrattata o dall’appartenenza a quella classe medio borghese per cui certe cose in pubblico non si fanno, aprendo ad una sequela di atti mancanti o repressi in cui la visione mancante (in primis dei corpi senza vita dei genitori) è l’atto fondante del suo immaginario.
A.B.: Aggiungo, ricollegandomi alla scena in mare, che sull’arco della barca c’erano tre generazioni e che nel fuori campo c’era, in un certo senso, l’Origine del mondo (citando il noto dipinto di Courbet): nel segno di un’apparizione, il sesso schiuso si offre allo sguardo in un rapporto che sembra generativo e insieme – in quanto il fuori campo sembra insistito – desiderante. Da lì, anche quel senso di mancanza e di impossibilità (alla base di tanto cinema di Sorrentino) scavato da quel corpo impossibile.
A.B.: A me sembra che, sempre dentro quella sincerità, ci sia una specie di confessione da parte di Sorrentino che riguarda la sua provenienza piccolo-borghese. Lo anima, come detto, un desiderio di “rivedere” i suoi cari morti, ma anche quello di non-essere-come-tutti (tipica ansia da prestazione del piccolo borghese) – com’è che dice: “la realtà è banale”, anzi “scadente”. Da questi elementi, anche, nasce forse il suo bisogno-fuga nell’altrove metafisico… Ma in questo film mi sembra sia meno preoccupato dell’essenza e più della condizione umana, ed è un bene.
A.B.: Nel desiderio di far rivivere i genitori c’è un dolore esistenziale (l’abbandono di cui gli parla Capuano –“non ti senti solo, lo aizza, ti senti abbandonato!”- ed è proprio così, hai voglia a razionalizzare…). In quello piccolo borghese forse una ferita narcisistica collegata a un io idealizzato (che non vuole essere normale e banale) e una rabbia e arrivismo da parte di una classe sociale che sgomita nell’ascensore sociale – con una gran paura di perderlo…
A.B.: Nel film gli spazi aperti dalla sofferenza, dal desiderio e dal labirinto caciarone della comunità, eterogenea più che iscritta in chiare dialettiche di classe (siamo nei primi ’80), a me sembrano produttivi. Poi certo, Vito e gli altri racconta tutta un’altra storia. Prima del resto più onesta, probabilmente. All’interno di un cinema che non ha avuto il giusto riconoscimento. Ma in Italia un po’ si sa, ci si vuole consolare con gastronomia, bel paese e miracoli… D’altra parte i film di Sorrentino prima di questo, tranne forse L’uomo in più, per me erano e rimangono molto discutibili. Perché davvero troppo compromessi, oltre che veicolanti uno sguardo patinato e in fondo abbastanza derivativo. Ma questo ultimo è un po’ diverso, a me sembra, e giudicarlo sulla base del giudizio precedente penso sarebbe un errore. Poi il rischio del “poterselo permettere” (un po’ come accade nelle varianti del filone washing…) come ennesimo abuso di posizione dominante, dissimulata nella migliore tradizione borghese e piccolo borghese a reti unificate, in effetti rimane…
F.C.: Io invece mi rendo conto di aver sempre salvato i film precedenti di Sorrentino cercando in lui una specie di consapevolezza metalinguistica nel mettere in scena un immaginario eccesivo, ridondante e sull’orlo del collasso , un dolore sotterraneo a questa voglia di estetizzare e consolare, a parte, e sono d’accordo con Alessia, su L’uomo in più, dove rispetto alla morte e al dolore trovo una frontalità e una lucidità di sguardo simile a quella che ho visto in quest’ultimo film. In realtà, forse, ci ha fatto credere di poterselo permettere fino adesso e ora magari è convinto che “si può permettere” anche una sola inquadratura di autentica compassione per farsi assolvere dalla sue derive compiaciute e a tratti un po’ ristagnanti, involute. Eppure io, quell’eterno ritorno al fallimento di cui gli parla Capuano (anche quello un monito, in fondo), seppur mistificato dal bisogno di piacere, continuo a vederlo in tutto quello che Fabietto farà e che Paolo ha già fatto.
Ciao grazie per le vostre riflessioni anche a me il film di Sorrentino, pur avendolo visto solo in tv, è piaciuto l’ho trovato in fondo sincero nel rileggere la propria adolescenza con quel po’ di rabbia, nostalgia, sfacciata teatralità …