[**] Enzo Monteleone prova a dire la sua portando sul grande schermo la fortunatissima pièce teatrale Due partite di Cristina Comencini, con la benedizione della regista, curiosa di un punto di vista maschile per la sua riflessione, tutta al femminile, sull’universo donna. Ne sarà rimasta delusa, presumiamo, dal momento che l’operazione si è rivelata una piatta trasposizione dalla scena alla pellicola, evidenziando i limiti (evidenti) e le perplessità (parecchie) già insite nell’opera teatrale.
Le quattro madri degli anni sessanta (Margherita Buy, Marina Massironi, Paola Cortellesi e Isabella Ferrari), che si incontrano ogni giovedì per giocare la loro partita a carte, diventano le quattro figlie, adulte, che si incontrano trent’anni dopo al funerale della madre di una di loro. Se a teatro le stesse attrici (ma con Valeria Milillo al posto della Cortellesi) impersonavano madri e figlie, al cinema, i ruoli delle figlie sono affidate ad attrici diverse (Carolina Crescentini, Alba Rohrwacher, Claudia Pandolfi e la stessa Milillo), per una scelta maggiore di realismo, come sottolineato dallo stesso Monteleone. I loro incontri rappresentano per entrambe le generazioni, madri e figlie, l’occasione per confrontarsi (e sostenersi) sulla vera partita, quella della vita, traendone, in entrambi i casi, un bilancio fortemente amaro. Madri felici o mogli insoddisfatte, donne realizzate o brave casalinghe, tutte si portano dietro il loro carico di frustrazione e rimpianto. E non sembra essere cambiato molto da un’epoca all’altra, nonostante nel mezzo ci sia stata la rivoluzione femminista; ieri come oggi, la donna deve confrontarsi con quel duplice desiderio apparentemente inconciliabile, di sentirsi realizzata sia individualmente che in coppia, e se oggi le figlie hanno molta più libertà di esprimere se stesse e di inseguire i propri sogni, non per questo riescono maggiormente a sentire dentro di loro il calore della felicità.
In questo senso il film, così come già l’opera teatrale, non vive nessuna vera evoluzione: cambiano personaggi e scenari, ma non il loro contenuto. La relazione tra le protagoniste è giocata su dinamiche che prevedono continui rovesciamenti di ruolo, con un occhio – sia consentito il riferimento – ai “giochi” del triangolo drammatico di Karpmann, diventando di volta in volta ora vittime, ora carnefici, ora salvatrici. Ma come tutti i “giochi” psicologici, la dinamica si rivela un loop dal quale non si esce. Pertanto quella sensazione di staticità e di immobilismo, sottolineata anche dall’impianto fortemente teatrale del film, girato quasi tutto in interni, appare ancora più forte quanto più le protagoniste, parlano, parlano, parlano…ritrovandosi così a girare a vuoto, riempiendo i loro dialoghi di una serie infinita di parole e riflessioni che dicono tutto e il loro contrario, e che in definitiva non portano a nulla. Un attivismo caotico e immobile allo stesso tempo, un vomitare infinito e circolare di concetti e parole che frustra le ambizioni di un’opera nella quale le attrici finiscono tra l’altro per impersonare dei tipi, dei cliché, distanti anni luce da persone in carne ed ossa, reali e “vere”.
E ciò, nonostante le attrici siano tutte più o meno brave, le migliori attrici italiane del momento, come ha detto qualcuno. Così brave che sembrano quasi rapirti, così come spontaneo è il riso alle loro battute (i tempi comici sono perfetti) o il tremito emotivo (ma molto fugace) nei momenti più drammatici; gli stessi dialoghi sono godibili (fino a che non rivelano la loro vacuità). Forse il valore più bello del film sta proprio nella solidarietà e nella complicità che, pur nella diversità di ognuna, le donne sanno creare, molto più degli uomini.
Eppure all’uscita sala rimangono gli stessi dubbi e le stesse perplessità che erano sorti all’uscita del teatro. E che il film non è riuscito a sciogliere.