DICHIARAZIONI DI ATTORI, COLLABORATORI E CRITICI 1) Isabella Ferrari, a proposito di Un homme à la mer. Il primo incontro con Doillon, a Parigi, è durato due ore. Si è parlato naturalmente di cinema, di Cassavetes di cui in quei giorni a Parigi proiettavano la retrospettiva completa, di Renoir e Max Ophulus e, naturalmente, dei suoi film, L’amourouse e La vengeance d’une femme, che conosco. Non c’era ancora un progetto preciso, ma una simpatia (..) Così il progetto La chambre 27 è divenuto Un homme à la mer. Per fax mi sono arrivate le pagine della sceneggiatura, dettagliate, precise, anche se senza i movimenti di macchina, con i lunghi dialoghi che mi riguardavano e che, francamente, sulle prime mi spaventarono. Sono andata a Parigi un mese prima dell’inizio delle riprese, ho parlato a lungo con Doillon e mi sono rinchiusa in un piccolo albergo di fronte a Notre Dame, per imparare a memoria il testo e farlo diventare mio (..) Il primo giorno sul set è stato un momento molto importante per me. Si doveva girare, seguendo lo schema cronologico, le scene dell’incontro tra Maria e Fanny. Un dialogo fittissimo, una serie di scambi psicologici, di movimenti nervosi e allo stesso tempo motivati. Non essendo abituata ai lunghi piani sequenza la cosa mi sembrava, sulle prime, di estrema difficoltà. Doillon fa uscire tutti i tecnici, i macchinisti, gli elettricisti. Restano sul set solo gli attori e il regista. Il regista è la macchina da presa e noi attori ci muoviamo, cercando le giuste posizioni, le intonazioni, gli sguardi. Doillon osserva in silenzio e ci guarda come di nascosto. Proviamo e ripetiamo più volte, ogni volta migliorando, scavando nel testo, facendolo nostro. Poi Doillon trova che il punto in cui siamo arrivati è quello giusto. Allora fa ritornare tutti, fissa definitivamente le posizioni, definisce lo spazio, corregge i movimenti, rettifica alcune battute. Si accendono le luci, si individuano i posti dell’azione, il tecnico del suono prova la qualità, approntando i microfoni, per raggiungere anche a livello fonico il massimo della spontaneità. E finalmente si gira. Dopo il primo ciak Doillon segue con il monitor e la cuffia, corregge le voci, interviene, consiglia, fa ripetere più volte la scena; alla dodicesima già tutto va meglio, sentiamo che le emozioni si sono liberate, che i gesti sono quelli giusti, che il piano sequenza ti segue in tutti i tuoi movimenti, coglie tutte le sfumature. Generalmente la “buona” è la quindicesima ripresa. Allora Doillon dice stop. Tutto è a rischio, io attrice abituata a dare il massimo al primo o al secondo ciak, mi trovo sulle prime disorientata, ma poi capisco che quello che conta è quando senti che è arrivato il momento magico, quando cioè ti accorgi che tra te e gli altri è nato un comune modo di sentire, una vera comunanza di intenti (..) Partecipi con tutta te stessa, entri nel personaggio e sai, ancora più che a teatro, di essere completamente sotto lo sguardo della macchina da presa, viso corpo, gesti… 2) Caroline Champetier, operatrice di macchina in molti film di Doillon. Quel che mi ha impressionato maggiormente è il lavoro di sistemazione sul set che fa Doillon, la coreografia che ne deriva, e quindi il lavoro con gli attori, i corpi degli attori. Non è semplicemente un personaggio che entra, si piazza, dice qualcosa e se ne va. Il corpo deve lavorare, assumere certe posizioni (..) Siccome è un perverso, io credo, e si tiene in disparte dalle lotte psicologiche che si svolgono durante le riprese,ha messo Lutbtchansky (direttore della fotografia) e me in leggera competizione riguardo alla conoscenza del film (..) E’ un grande regista di volti. In cima alla postura del corpo c’è il volto, il corpo segue il volto, ed è questo che Doillon vuol vedere: una contrazione della mascella, un battito di ciglia (..) Ti metti sull’orlo dello scoglio e dici: “Salta, se sei capace”. Hai voglia di fargli vedere che sei capace e allora ti fabbrichi in fretta le ali, perché è meglio non dimenticare le ali. A suo modo, come Godard, forse non gli piace questo macchinario, gli piace che tutto sia un po’ a rischio, anche per lui. Io la sento come la posizione di un artista, non pesante o rivendicativa (..) Ponette era il film impossibile da fare, nessuno aveva mai girato con una bambina di quattro anni facendola lavorare davvero, facendo fino a venticinque riprese. Ho capito allora la dimensione universale dell’attore, il fatto che tutti sono attori, che è una cosa che ha a che fare con il dono di sé e con il gioco. Poi si può dire quel che si vuole, che è una cosa perversa avere dato alla bambina il premio per la migliore interprete, ma resta un film straordinario che ha sconvolto gli spettatori in Giappone, in Spagna, in America. Doillon è stato lasciato molto solo all’uscita del film in Francia e da parte della critica francese c’è stato un atteggiamento massacrante che non perdonerò mai, tanto più che per Doillon è una ferita aperta… 3) Jane Birkin, interprete di diversi suoi film e sua compagna di vita. Voglio talmente piacergli…e ho una tale paura di deluderlo… A volte ho sentito come un’umiliazione il fatto di non arrivare meglio e più in fretta a ciò che Jacques desiderava: mi sento così lenta, così poco dotata… nella tua insicurezza, cominci a disperare quando, dopo dieci riprese, ti rendi conto di non aver ancora realizzato quella buona (..) Vuole essere sorpreso da ciò che accade. E’ un grande lavoratore, la quantità di pellicola è il suo unico lusso: la prestazione degli attori viene prima dell’estetica, prima di tutto. Gli piace lavorare sia con i bambini, per la loro spontaneità, che con le attrici, alle quale vuole togliere tutto quanto hanno imparato in precedenza o tutto quanto contano di sapere: in ogni caso si è come bambini (..) Non conosco nessuna attrice che abbia fallito in un film di Jacques… (..) Jacques è venuto a parlarmi e mi ha detto che ammirava molte cose nelle persone, ma se ce n’era una che disprezzava era la mancanza di coraggio. Per lui gli attori sono come cavalli capaci di grandi salti: non può essere fiero di un cavallo che prima di saltare guarda per terra e cerca di evitare l’ostacolo. Preferisce che salti, a costo di romperti una gamba. Quel giorno mi ha detto ciò che avevo bisogno di sentirmi dire: e l’orgoglio è ritornato (..) … e in Comédie! Quelle bellissime battute sull’angoscia di non essere amata.. E quel testo magnifico, in La fille de quinze ans, quando Jacques dice a Judith: “Non è la tua età che mi interessa, ma come i sentimenti appaiono sul tuo viso”. E’ talmente vero quando si conoscono un po’ gli adolescenti: è uno dei film più sconvolgenti che abbia mai visto sul desiderio… E Jacques è uno dei dialoghisti più ispirati che io conosca. Solo a teatro c’è qualcosa di simile: nei film è molto raro (..) La purezza, la capacità di essere esigente con se stesso, quella parte di noi che si perde con il tempo, le lusinghe, il successo o semplicemente con l’età, Jacques ha saputo conservarla. Ha saputo mantenere la freschezza di una persona molto giovane: un’urgenza assoluta. Infatti non è cambiato. 4) Pierre Encrevé, critico cinematografico. Doillon cerca, come dice il titolo di un suo film, ciò che viene du fond du coeur, dal fondo del cuore, con il rischio di sentimentalismo che l’espressione comporta (..) Doillon cerca di conoscere, nei comportamenti umani, quel che viene da lì, qualcosa che viene da lontano e, in un certo senso, sta al di là delle parole e degli atteggiamenti immediati. Quando dico cuore, in fondo, dico quasi la stessa cosa di corpo. Quel che interessa nei corpi di Doillon, nella loro opacità e nella loro non analizzabilità, ciò che interessa dipende dal fatto che in fondo a essi c’è il cuore (..) In un film di Doillon non ci sono azioni, ci sono solo delle interazioni. Doillon definisce una situazione fra più personaggi in uno spazio impossibile e, in questo spazio, chiede ai suoi personaggi di muoversi senza smettere di parlare (..) nasce allora qualcosa che è una sorprendente impressione di verità (..) Tutto ruota attorno alla presenza degli assenti alla loro assenza, sia che ciò sia dovuto alla rottura di una coppia (quale che sia la sua natura) da parte di un suo membro, sia per una scomparsa di una madre, di una sorella o di un amico, C’è sempre una specie di buco, e intorno a questo buco ci si muove e si parla. A partire da queste assenze, si creano delle interazioni che possono produrre, per coloro che vogliono vederle e sentirle, mentre invece altri le rifiutano, delle verità sconvolgenti (..) L’unica indicazione che dava ai cinque personaggi per tutte le riprese era: muoviti. Uno degli attori obiettava: non posso muovermi, non c’è posto. Doillon gli ripeteva: tu muoviti, e alla fine l’attore riusciva a muoversi in quel piccolo spazio impossibile (il set era una camera d’albergo di 45 mq per quattro attori), se ne impadroniva e tutto funzionava benissimo. E’ l’idea di Doillon: bisogna incastrare le e persone e vedere come, in queste situazioni bloccate, si esercita la loro libertà. JACQUES DOILLON PARLA DEL SUO CINEMA, DEGLI ATTORI, E POI DI POLLI, GUSCI E VIOLENZA… Il testo c’è per cominciare a cercare qualcosa, che non si conosce ancora. Serve a cercare quello che, leggendo semplicemente un testo, non si capisce, o che io capisco in un modo e un attore in un altro. Non voglio semplicemente filmare le parole senza darle alla scena, e mi aspetto sempre di più che la scena filmata sia inimmaginabile rispetto a quello che ho scritto (..) Il fonico Jean-Claude Laureux mi fa sempre notare che quando finalmente arriviamo alla ripresa buona, quella che va bene per tutti, io faccio ancora altri due o tre ciak, come se, una volta arrivati a quello che cercavo, lo volessi rompere di nuovo. In effetti è come voler rompere una “perfezione” raggiunta. Farla muovere, non lasciare le cose al loro posto, dove le aspettavamo. Quello che mi interessa sono le due o tre riprese finali, che ridanno vita a quella giudicata “buona”, e spesso al montaggio tendo a scegliere una di quelle. Perché bisogna subito mettere in questione quel che si è fatto, non limitarsi a prenderne atto con soddisfazione (..) Non si stratta di improvvisazione, anzi direi che nei miei film l’improvvisazione è zero. Se fai due, cinque, dieci ciak, è normale che ci siano delle parole che si lasciano catturare, altre che cadono, altre che si aggiungono. La si può anche chiamare improvvisazione ma non si tratta di cambiare le parole, si tratta di usare quelle parole, o altre, per arrivare al cuore della scena. Se, naturalmente, la scena ha un cuore (..) In genere scrivo abbastanza velocemente, due o tre settimane, e poi ne ho ancora tre o quattro fino alle riprese nelle quali lavoro a modificare questa o quella scena, anche più di una volta. Il fatto è che sto aspettando gli attori e quel che faccio serve soprattutto a calmare la mia ansia. Quando gli attori ci sono, il film comincia e in dieci secondi posso decidere di tagliare metà di una scena a cui magari ho lavorato per delle notti intere, spostando e limando una parola o una frase (..) Sono sempre molto attaccato alle parole e sento di dover attaccarmi ancora di più a esse, ma non a quelle che già conosco, a quelle che verranno. E sento comunque che il senso, la vita di una scena, non stanno nelle parole. Se ci si accontenta di recitare le parole, la scena non c’è. Si vedono dei film che, con altri attori, sarebbero esattamente gli stessi: evidentemente il regista ha detto tutto, ha spiegato il tempo da tenere, e lascia fare gli attori (..) Mi capita di lavorare anche sulla stanchezza dell’attore. Ci sono attori che non hanno fiducia in se stessi, e nel regista, e non osano avventurarsi su una certa strada. Allora bisogna fargli abbassare la guardia. Sono come i pugili che, a parte qualche grande eccezione come Mohammed Alì, si presentano sempre con la guardia alzata. E dunque è lì che devi colpire, per perforare la guardia. Gli attori, e più gli attori che le attrici, sono spesso tesi, rigidi, hanno paura di prendere dei colpi (..) Ci sono quelli con cui parli molto, con altri parli poco ma dando indicazioni molto precise, con altri devi parlare tanto ma dando indicazioni vaghe. Certo è che è un vero lavoro, che richiede molte energie e spesso è violento, così che alla fine delle riprese quegli attori non puoi praticamente più vederli. Posso vedere Béatrice Dalle o Isabelle Huppert su un altro film, e spero che accada, ma non andare a cena con loro. Il set è un’esperienza talmente impegnativa, forte, muscolare persino, in cui si sono vissuti momenti di tale complicità e anche intimità, che poi incontrarsi in casa di amici o attorno a un tavolo diventa una cosa molto mediocre (..) Come voglio rompere la sceneggiatura voglio anche rompere l’attore, nel senso di rompere il guscio in cui si è rinchiuso perché la persona esca meglio. Ciò non vuol dire che l’attore sia un pulcino o un pollo, ma solo che deve venire fuori la vita e le emozioni, o comunque qualcosa che non sia solo un testo ben recitato. (testi estratti da “Jacques Doillon”, volume della collana Pesaro Film Festival, a cura di Alberto Farassino, edizioni Il Castoro, 2000)
One Reply to “Due o tre cose che so di lui: “con” Jacques Doillon”