Tra le esperienze cinematografiche più insolite e anomale che ci prospetta l’avvio di questa torrida estate, spicca sicuramente l’ultimo lavoro dell’eclettico australiano Rolf De Heer che negli ultimi vent’anni (anche se in Italia abbiamo cominciato a conoscerlo bene solo a partire dal controverso Bad Boy Bubby del 1994) ha intrapreso un personale viaggio attraverso forme di immaginazione e di sensibilità eterogenee, spaziando da escursioni introspettive all’interno del disagio psichico e fisico (come nel citato Bad Boy Bubby, ma anche in Balla la mia canzone con in primo piano il corpo e il cuore della vera tetraplegica Hether Rose), a delicate indagini sul mondo dell’infanzia offesa e non ascoltata (La stanza di Chloe), per arrivare alla brutalità dello psicodramma a tesi anti-maschilista (Alexandra’s project), riportando poi lo sguardo dal “dentro” al “fuori” degli sterminati e suggestivi paesaggi dell’Australia più arcaiaca e incontaminata delle comunità aborigene (10 Canoe).

Ciò che accomuna e rende riconoscibile la vibrazione sotterranea con cui De Heer affronta spazi, situazioni, emozioni tanto apparentemente distanti tra loro è  l’attenzione e l’affetto che ognuna di queste esperienze umane sicuramente estreme, radicali e lontane suscitano nello spettatore provocandolo a una partecipazione attiva, spingendolo alla possibilità di trasportarsi in territori altri percependoli, dopo l’iniziale smarrimento, come luoghi reali, intensi, attraversati da un brivido ora di ironia, ora di beffarda amarezza, a volte di autentico dolore. Dr.Plonk appartiene alla vena più scanzonata e compiaciuta di De Heer che, fin nella forma, si lascia andare al citazionismo delle origini della storia del cinema, usando un linguaggio da slapstick comedy, rigorosamente muta e in bianco e nero e riproducendo la stessa qualità delle pellicole degli anni Venti: un’operazione stilistica che si rivela in linea con la scelta della storia e del personaggio raccontati, il bizzarro Dr.Plonk che, nella Sydney del 1907, calcola che il mondo finirà nel 2007 e decide di creare una macchina del tempo per arrivare ad avvertire i posteri prima che sia troppo tardi. In questa delicata operazione è coadiuvato dal fedele inserviente sordomuto Paulus e dalla opulenta moglie, la sig.ra Plonk, con cui forma una buffa coppia alla Stanlio e Ollio. Il divertimento e l’euforia del set durante le riprese traspaiono dall’energia fisica e dalla vitalità con cui gli attori (di cui uno, Nigel Lunghi alias il Dr.Plonk, è acrobata/prestigiatore/artista di strada) si sono prestati al gioco di calarsi in una dimensione estetica e narrativa senza tempo, compiendo a ritroso il viaggio che Plonk e la sua sgangherata equipe eseguono verso la contemporaneità. Ed è proprio quando i nostri eroi si trovano a contatto con il futuro, rappresentato da De Heer con lo stesso stile del 1907, che emerge la vena malinconica, toccante e tenera di questo buffo omino che, da personaggio da comica da torte in faccia, acquista lo spessore di uno sradicato dalla sua realtà e dalla sua identità (verrà scambiato per un terrorista), pagando la volontà di comprendere, di conoscere e comunicare con l’isolamento e l’oblio. Lo stesso  accadeva a Bubby, la stessa ostinazione nel ribellarsi all’ottusità autoritaria apparteneva a Chloe o ad Alexandra, come se nella diversificazione di sessualità e personalità ci fosse il bisogno di esprimere gli stessi principi, valori e ideali.

La stessa scelta della colonna sonora – che ricalca fedelmente gli stilemi della musica d’accompagnamento dal vivo dei film muti – è affidata all’abile trio dello Stiletto Sisters (violino, fisarmonica, contrabbasso): sapientemente ondulante tra le note più ritmate e allegre nelle gag ambientate all’interno del laboratorio di Plonk nel 1907 (con Paulus inimitabile spalla comica di tradizione quasi goldoniana), e più distesa su suoni incupiti e tristi, seppur con accelerazioni e cambi di tono, nelle sequenze degli inseguimenti, quando la scenografia diventa la desolazione dei paesaggi urbani del nuovo millennio. E degli eccessivi ottantacinque minuti di durata, dove il piacere del regista a volte fagocita la necessità del racconto, resta impressa quell’espressione fanciullesca del Dr.Plonk dietro le sbarre, con l’uniforme a righe, che ricorda tanto quella della Banda Bassotti. A ricordare che dietro ogni commedia c’è un po’ di tragedia. O viceversa.

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