Sarebbe davvero un posto migliore il mondo se fosse la musica a fare la differenza. Il controllo di sé, la prudenza di leopardiana memoria che ci agghiaccia e lega, la solitudine delle nostre ragioni personali troverebbero infatti in essa un nemico più forte ed efficace. Perché la nota possiede un’innata e smisurata potenzialità, quella di sostituire al processo mentale una vivida emozione che ha in sé tutto ciò che le occorre per poter essere condivisa. Se in un dato momento un dittatore folle decidesse di legiferare una norma che imponesse musica in ogni situazione e a tutte le ore del giorno, pasti compresi, le relazioni umane così sovente usurate e dimenticate attraverso il tempo della conoscenza, brillerebbero invece di una gigantesca luce propria; perché il riff di chitarra ci esonererebbe dall’ansia di prestazione, la vibrazione di un tamburo libererebbe la nostra rabbia trattenuta, l’intermezzo di piano ci guiderebbe fino alla pace degli affetti. Presumibilmente, da quel momento in poi, sarebbe semplice e naturale dimenticarci di noi stessi, delle presunte ragioni e dei torti subiti.
Eppure qui si sta raccontando di un’utopia, poiché l’esistenza umana è principalmente caratterizzata da azioni e pensieri spesso tra loro dicotomici, e la musica non può possedere alla lunga questa forza necessaria né la competenza per renderci diversi da quello che siamo. Anzi, é essa stessa a farsi portavoce di un’impossibile convivenza sulla terra, di un’inconciliabile contemporaneità, dello spaventoso dato di fatto che su ciascuna relazione incombano lo spettrale pericolo della fine e la paura ancestrale che prima o poi l’amore, così cantava Ian Curtis, ci fará a pezzi di nuovo.
Laddove fallisce nel lungo periodo, nella brevità dell’istante la musica é invece in grado di rovesciare gli equilibri. E’ ciò che accade nell’ultimo film di Jonathan Demme e nella storia di Ricki Rendazzo, non più giovane frontwoman dei The Flash, gruppo rock rimasto sconosciuto al pubblico nel corso della sua esperienza artistica e che verso il tramonto della propria esistenza musicale si ritrova ad esibirsi quasi quotidianamente in uno sperduto pub di Los Angeles, frequentato in prevalenza da settuagenari malinconici, ventenni sperduti nel disagio e, innanzitutto, da persone solitarie.
Attraverso la voce di Meryl Streep, che dopo l’esperienza trascorsa di Mamma Mia si riscopre e si fa scoprire funzionale anche alle sonorità ben differenti del rock, quell’isolato microcosmo di persone ferite dalla vita ripercorre a tappe obbligate un pezzo significativo di musica dagli anni ‘60 ad oggi, un excursus autentico e un po’ schizofrenico di storia del rock nelle sue più svariate contaminazioni, dal blues al fusion, dal folk al glam, dal country al boogie, e ancora, cronologicamente e concettualmente parlando, dai Rolling Stones per arrivare a Pink, da Springsteen tornando a Lou Reed, da Neil Young agli U2, dai Canned Heat fino ad Eric Church. Senza voler tenere in considerazione il giudizio sulle scelte musicali o sull’opportunità della playlist che ne é scaturita, qui si prende solo atto della vitalità della musica nell’attimo stesso in cui un giro di basso o un rullo di batteria prende possesso delle pareti. E’ una forza fine a se stessa, destinata ad esaurirsi di lì a breve dal compimento dell’esperienza musicale, eppure in questo spazio così strettamente predefinito delle note, un anziano ripercorre i suoi ricordi laddove un giovane dà corpo al suo presente, una donna scova un riparo per la sua commozione nell’attimo stesso in cui un uomo trova un morbido materasso al suo declino. La musica svela la condizione comune dell’individuo, la sua azione tridimensionale ci rende se non uguali, simili innanzi allo scorrere delle vicende. Un miracolo, temporaneo, ma pur sempre miracolo.
Anche nell’ambito delle relazioni affettive più intime, le sette note trovano la loro ragione d’essere. Oltre che una cantante, Ricki é una madre e una moglie che ha scelto di inseguire il sogno di dare un senso a se stessa abbandonando prematuramente il tetto famigliare. Scelta impopolare, ancor di più se é una donna e non un uomo a compierla. Quando la crisi coniugale della figlia la obbliga a far ritorno alla sua casa “natia”, Ricki si ritrova a fronteggiare l’ostilità e la diffidenza di chi, sentitosi abbandonato dalle scelte di lei, a queste ultime, per convinzione o semplicemente per vendetta, attribuisce la ragione della propria travagliata condizione attuale. Demme disegna un ritratto di famiglia didascalico e letteraturalizzato: figli gay, figlie depresse, mariti borghesemente e coattamente misurati, nuove mogli del marito perfette e quindi stronze, future nuore algide e snob, suocere segnate dall’età e per questo simpatiche. Ma la tipizzazione dei personaggi in Demme risulta in questo caso meno disfunzionale della norma perché inserita in un respiro più ampio, nella sfera universale e al contempo singolare della musica.
Fallito infatti il primo ritorno a casa, Ricki ne compie poco dopo un’altro per assistere al matrimonio del terzo figlio. Nell’area del banchetto di un matrimonio che più standard non si può, la donna sale sul palco per dedicare una canzone al figlio. Sulle parole di “My Love will not let you down” di Bruce Springsteen, Ricki racconta di se stessa, ora compiutamente da madre, moglie e cantante insieme, in un processo di fusione che sarebbe delittuoso e insensato impedire: “Di notte vado a letto, ma non riesco a dormire. Ho qualcosa che mi gira per la testa che non riesco ad afferrare. Nel silenzio sento battere il tuo cuore, tempo che scivola via. Ho una bomba ad orologeria che ticchetta dentro di me. Devo spiegarti cosa voglio dire. Ti sto cercando, amore, cercando dovunque io vada, e quando ti ho trovata c’è una cosa, una sola cosa che devi sapere: il mio amore non ti lascerà mai“. Durante l’esibizione, a mano a mano, figli arrabbiati o tristi, mariti congelati e nuove compagne stronze si accalcano al centro della sala, e ciascuno col suo stile e il suo tempo cedono al ballo, al canto e alla libera espressione di sé. La favola di The Ricki e The Flash, forse altrove furba e tediosa, qui é filtrata e resa verosimile dalla natura evocativa delle note, dal riscatto effimero ma reale di una canzone, dalla dignità del nostro dolore che la musica sa restituirci ad intervalli rari e preziosi, al netto dei quali ciò che resta é una vita da dover vivere.