“L’assimilazione, questa parola di cui tanto si abusa, era in Italia la realtà (…) Quello che in Danimarca fu il risultato di profonda sensibilità politica, di un’innata comprensione dei doveri e delle responsabilità di una nazione che vuol essere veramente indipendente (…) in Italia fu il prodotto di una generale, spontanea umanità di un popolo di antica civiltà”. Così scrive Hannah Arendt nel citatissimo e poco letto La banalità del male quando analizza la politica delle varie nazioni europee in merito alla questione ebraica, dalla promulgazione delle leggi razziali alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il mito del buon italiano, che agisce in maniera umana quasi senza un pensiero razionale, non per una precisa volontà politica, ma per il suo innato istinto al comandamento cattolico di non fare agli altri quello che non vorresti fosse a te fatto, magari velato di aspetti un po’ farseschi di disobbedienza e antipatia verso l’incomprensibile e antitetico carattere tedesco. Con un tale viatico, come persuadersi del contrario? Quanto scritto dalla Arendt incarnava già perfettamente lo spirito della maggioranza degli italiani, nessuno dei quali era mai stato fascista a partire dal 25 aprile in poi. Non lo hanno dimostrato a sufficienza sputi e oltraggi vari ai cadaveri appesi a Piazzale Loreto? L’evento, una vera e propria messa in scena auto-rappresentativa a beneficio delle forze alleate, è il primo evento ufficiale della lunga catena di strategie dell’oblio attuate dal popolo italiano, con uno spirito collettivo degno di miglior causa, in merito al ventennio fascista e alle sue responsabilità di vario grado. Tra queste, come è facile comprendere, il pensiero della Shoah è immediatamente trasfigurato in qualcosa di Altro, mera responsabilità del crudele occupante, di cui comunque nessuno sapeva nulla. Nessuna memoria della Risiera di San Sabba, così lontana e così vicina a Trieste e ai suoi abitanti, vero e proprio campo di concentramento, cui Claudio Magris dedica pagine dolorose nel suo libro significativamente intitolato Non luogo a procedere. Non parliamo poi del campo di internamento per ebrei, apolidi, “nemici” di vario genere, di Ferramonti di Tarsia, la cui storia è al centro del semisconosciuto 18000 giorni fa (1993) di Gabriella Gabrielli.
Non a caso, infatti, quando prima Maurice Halbwachs e poi Jan Assman teorizzano il concetto di “memoria culturale”, sottolineano come un popolo per costruirsi un’identità collettiva ha bisogno di una struttura connettiva basata sulla ripetizione attualizzata della reinterpretazione del ricordo. E il cinema, con la funzione collettivizzante di luogo di incontro e allo stesso tempo di manipolazione dell’inconscio collettivo, è lo strumento ideale per un processo di autodefinizione di cui gli italiani nella primavera del 1945 avevano decisamente molto bisogno per sancire il loro “anno zero”.
Di queste interessanti e variegate manipolazioni rielaboratorie del passato si occupa il libro di Alessandro Izzi, un’opera che ha il merito di coniugare una piacevolissima lettura ad una notevole ambizione compilativa del materiale, che mai scade nella mera pedanteria, anzi sempre sorprende per l’attenzione e l’analisi verso molte pellicole sconosciute e/o più o meno (in)giustamente dimenticate. Come nel caso del capitolo dedicato al cinema nazi exploitation (che i tedeschi, notoriamente poco inclini a indorare le pillole, chiamano con sincera brutalità sadiconazista) interessante fenomeno di costume, antropologicamente parlando, ma piuttosto aberrante e come tale di solito relegato a poche righe, che invece in questo caso viene affrontato con attenzione quasi clinica e soprattutto con attenzione strettamente cinematografica.
Nel suo dettagliato ed esaustivo volume, Izzi ripercorre innanzitutto e meritoriamente i rapporti tra italiani ed ebrei mostrando come, documenti alla mano, sia possibile smontare l’intervento salvifico dei due miti di fondazione della Repubblica Italiana ovvero quello della Chiesa Cattolica e quello degli “italiani brava gente”, che non avrebbero mai voluto la guerra ma ci si sono chissà come mai trovati in mezzo. Izzi da un lato ci ricorda come esistessero precisi elementi di antisemitismo cattolico su cui si è abbastanza facilmente innestato quello razziale, e come parte dell’umanità decantata dalla Arendt sia dovuta a “un clima di confusione generale che rendeva l’applicazione di qualsiasi legge un qualcosa si estremamente aleatorio. Ed è in questo contesto che presero corpo moltissime azioni di salvataggio e accoglienza di ebrei, unitamente ad un altrettanto grande numero di delazioni, di denunce e di soprusi che il nostro cinema tende ad ignorare” (p.86).
È interessante notare, per inciso, come queste strategie autoassolutorie convergano singolarmente con quelle messe in atto dal cinema tedesco post-riunificazione, che ovviamente soffre di una storia personale diversa e deve attendere una sorta di lunghissimo dopoguerra fino a ritrovare un nuovo “anno zero”, quando il fallimento del processo di denazificazione è ormai lontano e Auschwitz in quanto paradigma del male assoluto del Novecento è diventato un patrimonio comune condiviso in un’ottica vittimistica che mette ambiguamente sullo stesso piano vittime e carnefici. Di conseguenza il cinema si focalizza sui pochissimi casi di resistenza al nazismo come quello di Sophie Scholl e la “Rosa bianca” o singoli casi realmente accaduti ma cinematograficamente assai manipolati di rapporti amicali/amorosi tra ebrei e tedeschi, contro la cui deflagrazione poco può il singolo davanti al terribile apparato della gerarchia nazista (che sembra piovuta dal cielo come gli alieni, e non entusiasticamente sostenuta da un popolo in delirio).
Il cinema italiano, ci ricorda Izzi, mondatosi da subito di ogni responsabilità nazionale, ricorre a precisi espedienti per rafforzare il proprio mito di innocenza e affrontare la delicata questione della persecuzione ebraica in Italia, scegliendo spesso quindi la dislocazione sia temporale sia geografica. Esemplare della prima tendenza è L’ebreo errante (1948) di Goffredo Alessandrini, uno dei primissimi film ad affrontare la questione a che si svincola dalle responsabilità inserendo la persecuzione in un continuum storico dalla notte dei tempi da cui ci si salva peraltro con la conversione al cattolicesimo.
È il cinema d’autore invece a scegliere invece di ambientare all’estero, in Germania e in Francia, opere necessarie ma imperfette come Kapò (1959) di Gillo Pontecorvo, Vaghe stelle dell’orsa di Visconti o I sequestrati di Altona di Vittorio De Sica (1962) o Vaghe stelle dell’orsa…(1965) di Luchino Visconti, indice significativo di un tentativo di elaborazione del passato che però fallisce lo scopo per una sostanziale mancanza di coraggio. È forse solo Roberto Rossellini che riesce davvero a interrogare la coscienza dei suoi personaggi sull’ebraismo in Italia, in uno degli episodi di Paisà (ancora fortemente ambiguo) e soprattutto nell’amaro Dov è la libertà (1952), significativamente accolto con riserve dalla critica coeva e interpretato dall’italiano per eccellenza ovvero Totò, che pure è protagonista anche dell’opposta tendenza autoassolutoria in chiave di commedia, come dimostra lo spensierato Destinazione Piovarolo (1955) di Domenico Paolella.
Anche il mondo dell’infanzia, tuttavia, è un ambientazione privilegiata, dato che permette di filtrare i grandi eventi storici attraverso lo sguardo innocente e ignorante del bambino, che diviene come tale il simbolo di un intero popolo, come nel caso de Il cielo cade di Andrea e Antonio Frazzi. Non è sempre detto, tuttavia, che l’elemento mitico – favolistico sia funzionale ad elementi autoassolutori: come sottolinea Izzi, in un lungo e interessante capitolo dedicato all’ingresso del cinema italiano all’interno della topografia del lager, il discusso caso de La vita è bella di Roberto Benigni (1997), per molti versi volutamente poco plausibile come rappresentazione dell’universo concentrazionario, ha il merito di stigmatizzare con notevole incisività nella prima parte del film le responsabilità degli italiani nella politica antisemita del regime nazista.
Nell’impossibilità di citare non solo i tanti film sconosciuti o dimenticati, e soprattutto le continue connessioni con teatro, letteratura, politica che Izzi inserisce con abilità e con uno linguaggio che coniuga esattezza critica e lirismo d’autore, non si può comunque non sottolineare l’accuratissimo lavoro svolto sulla fiction televisiva italiana, che, seppure ben lontana qualitativamente dalle serie americane, ha un notevole peso sull’immaginario collettivo e sulla costruzione della memoria culturale di ieri e di oggi.
Alessandro Izzi, Le strategie dell’oblio. Percorsi e ricorsi nel cinema italiano sulla Shoah dal 1945 al 2016. Universitalia 2017