di Fabrizio Croce/ Due uomini, non più giovanissimi, entrambi con capelli e barba grigi, seduti uno di fronte all’altro, che dialogano su un passato condiviso di amore e passione, fuoco e fiamme, sofferenza e rabbia: ne stanno parlando, anche se la nostra attenzione non si concentra tanto sulle parole , quanto sui loro volti e sugli occhi sempre più lucidi , sempre più intensi. Non si avvicinano , c’è una tale intensità trattenuta che anche il minimo contatto potrebbe far esplodere quello che brucia ancora sotto la cenere e che entrambi hanno scelto di sublimare in una struggente e tenera rievocazione . Rimane lo strascico carnale di un famelico bacio sulle labbra quando si salutano, ma tutto viene allontanato dall’ironia, dall’imbarazzo, dalla circostanza di un arrivederci che in realtà è un addio. Basterebbe solo il racconto di questa scena, scritta e diretta con una maestria baciata dall’ispirazione, a spiegare il fascino conturbante e sommesso di Dolor y gloria con cui Pedro Almodovar, dopo l’involuto ed opaco Julieta, torna a contaminare generi ( melò, film nel film, autobiografia) e linguaggi ( meta-narrazione, flashback, persino un inserto animato sulla struttura del corpo umano …) e ci pone davanti, con uno stile volutamente frontale , a una riflessione critica sul suo immaginario del desiderio che è stato per lui al tempo stesso liberazione e condanna, estasi estetica e tormento esistenziale.
In particolare la scena citata vede il protagonista , Salvador , regista e scrittore arrivato a un punto della vita in cui si trova a fare conti con due aspetti imprescindibili del suo essere uomo e artista, ovvero la mancanza d’ ispirazione e il suo passato, a confronto con Federico , l’amore assoluto, e di conseguenza impossibile, ricomparso dopo tanti anni : Per Salvador era stato impossibile salvare Federico dalla sua dipendenza dalla droga, per Federico sarebbe stato impossibile amare un altro uomo dopo Salvador. L’ unica atto che Salvador ha potuto compiere è stato quello di scrivere un testo teatrale sulla loro storia e l’unico modo per Federico di riavvicinarsi a Salvador è vederlo recitato da un altro attore , in un gioco di rimandi, doppi e citazioni che questa volta non hanno la spiazzante e vertiginosa inquietudine noir de La mala education; siamo più dalle parti de Gli abbracci spezzati in cui l’impossibilità della relazione poteva essere “ricucita” , simbolicamente(la vita) e letteralmente (la pellicola) solo dentro la sala di montaggio . C’è perfino un’analogia visivo/sonora tra i due film che, tra tutti i riferimenti i alle precedenti pellicole almodovariane disseminati in Dolor y gloria, è emblematica di un modo di vedere, e di far vedere, consapevole del potere della manipolazione: ne Gli abbracci c’era Penelope Cruz che sorprendeva il marito a guardare un filmato rubato senza audio di lei in compagnia del suo amante e cominciava ad auto doppiarsi in presa diretta, rivelando , nell’artificio del controllo e del distanziamento, il disprezzo e la disistima verso il vecchio e gretto coniuge; in Dolor Marcello e Salvador, prima del loro incontro, parlano al telefono per decidere quando e dove incontrarsi, anche se affacciandosi dal balcone Salvador si accorge che Marcello è già sotto casa sua ; decide comunque di non chiamarlo, continuando a mantenere la distanza di un apparecchio meccanico e ad utilizzarla per cercare lo spazio e il tempo di un riavvicinamento, esattamente come Penelope se ne serviva per creare una frattura e una lontananza .
Ho smesso di fare film perché voglio vivere, dichiara Salvador nell’incipit , ma si tratta dell’ennesima impossibilità , di un altro senso unico ….. Salvador/Pedro , il personaggio e la persona , il tempo della memoria ricostruita e il tempo del cinema imitation of life sono indistricabili e indissolubili. E in questo film intriso di una tristezza profonda, quella degli occhi di uno scavato e commovente Antonio Banderas, mai cosi “bello” ed erotico ( e che forse in Federico rivede una versione di se stesso) c’è la dichiarazione coraggiosa e autentica di una poetica che è anche parassitismo e vampirismo sulla vita; e c’è il ribaltamento della visione del rapporto archetipico su cui è stato costruito molto, soprattutto dell’immaginario gay : lo sguardo d’amore esclusivo e totale che il piccolo Salvador rivolge alla madre, una luminosa e popolana Cruz di volveriana memoria, che sembra chiudere a qualsiasi forma di desiderio verso un’altra donna , tant’è che le figure femminili di cui è circondato il Salvador adulto sono per lo più assistenti e badanti, è una chimera, un’icona, un cliché , un ‘illusione: l’ultima, la più gloriosa e dolorosa da far cadere. Pedro, e Salvador, ricorrono, come sempre, alla profonda conoscenza che hanno del Cinema, l’ idolatrato e talvolta blasfemo Angelo Salvatore delle loro esistenze maledette , e alla padronanza che ne posseggono in quanto mezzo espressivo: nella scena del confronto finale tra Salvador e la madre morente, in cui lei gli rimprovera di averla abbandonata e dimenticata dopo la morte del padre e lui si prende la colpa per non averla coinvolta nella sua vita di uomo e, a posteriori, per non averla accompagnata a morire nel suo paese d’origine, Almodovar affonda come non mai , con una lucidità e una laconicità senza consolazione , nelle piaghe di una relazione in cui ad ogni promessa e ad ogni patto non può che seguire una disattesa e un tradimento .
A pronunciare le parole dure del risentimento e quelle appassite della disillusione Pedro ha chiamato Julieta Serrano, che era già stata madre di Banderas, in quel caso folle, narcisista e snaturata in Donne sull’orlo di una crisi di nervi: ma non è più il tempo degli eccessi e della provocazione, delle iperboli e degli inseguimenti, il dolore è diretto ed essenziale. A Salvador, e a Pedro, non resta che filtrarlo e schermarlo riavvolgendo la pellicola ( e i film di Almodovar continuano a dare l’impressione di essere girati in pellicola) fino all’inizio della loro storia, fino al momento di quel primo desiderio infantile, puro, sconvolgente, irresistibile verso un corpo altro ,per giunta maschile; il primo tradimento del figlio devoto e la prima vendetta della madre castratrice.
Eppure l’immagine-cinema con cui vuole congedarci è quella di una consolazione, anche questa impossibile : davanti alla meraviglia dei fuochi d’artificio, il piccolo Salvador e la madre Penelope, quando ancora potevano bastarsi l’uno con l’altra dentro il piccolo mondo di un ‘inquadratura . Ma è lo stesso Almodovar/Banderas a rivelarcelo , si tratta soltanto della possibilità che può offire un’inquadratura : La vita, con i suoi feticci sottratti e i suoi abbracci spezzati, sta ad attendere da un’altra parte, fuori campo.