I miei vicini sono dei “gamberoni” (che è il soprannome che gli umani danno agli esseri arrivati dallo spazio), almeno li vedo in questo modo dopo aver visto District 9 e grazie al regista sudafricano Neill Blomkamp che per narrare la sua storia si appoggia ad uno sfondo storico: quanto avvenuto in Sud Africa durante l’apartheid in un’area residenziale di Cape Town denominata District Six, una baraccopoli riservata ai “negri”.

La trasposizione fantastica immagina un prossimo alieno che con una nave spaziale s’incaglia sopra i cieli di Johannesburgh. Da quell’enorme e minaccioso apparecchio non arrivano segnali di vita, nessuna comunicazione. Un’enorme struttura che grava “sopra” le teste degli abitanti della città e in qualche modo “nelle” loro teste, tanto da provocare paura e panico.

Dopo tre mesi di stallo le forze dell’ordine sudafricane entrano all’interno e vi trovano una popolazione bipede, dei crostacei che stanno in piedi, privi della possibilità di rimpatrio. C’è smarrimento nei loro volti “mostruosi”, appaiono denutriti e bisognosi di cure, in maniera simile di quanto ci capita di vedere tra gli immigrati sbarcati a Lampedusa, in chi è costretto ad affrontare migliaia di chilometri prima di arrivare in Italia e finire in un centro italiano d’identificazione ed espulsione. Vent’anni dopo  – il presente della narrazione filmica, cioè oggi – i “gamberoni” sono ancora lì. Sono stati confinati in District 9 ma purtroppo non s’integrano come dovrebbero! Riescono solo a moltiplicarsi pericolosamente. Inoltre, come ci spiegano in iperrealistici notiziari tv, rubano, frugano nei rifiuti, collaborano con le gang nigeriane che controllano il territorio. La Nigeria ha preteso scuse formali da parte della Sony perché il film danneggerebbe l’immagine del paese, mostrando la popolazione come criminale. In realtà – fatte salve le proteste comprensibili del paese africano – si tratta di altri emarginati, così ce li mostrano, e che quindi – sembra suggerirci l’autore – condizioni di vita simili producono gli stessi risultati: non è indispensabile essere giunti da un altro pianeta o da una diversa nazione o avere un diverso colore della pelle. Costringere a vivere un palestinese, per anni e anni in un campo profughi, produrrà un semplice e matematico risultato finale: tanta rabbia che prima o poi dovrà esplodere in qualche direzione.

Blomkamp per raccontare District 9 inventa un “finto” documentario, un reportage televisivo in diretta – una telecamera segue da vicino Wikus van der Merwe, impiegato della Mnu (Multi-National United: la multinazionale a cui il governo ha dato il compito di “delocalizzare” gli alieni) –  poi mescola  assieme La mosca, Trasformers, Robcop, Starship Troopers, ma la parte più interessante della ricetta è la contaminazione con il presente, con uno dei conflitti di maggior rilievo nel mondo globalizzato, quello relativo alle politiche dell’immigrazione. Dal cortocircuito tra finzione, fantascienza e reale emergono delle note dissonanti, perturbanti, ne esce fuori qualcosa che disturba la vista. Ci racconta il regista sudafricano – col suo esordio da 30 milioni di dollari, dove contamina satira sociale e fantascienza, con l’energia contagiosa di un B-movie – un mondo dove il diverso diviene catalizzatore delle nostre pulsioni violente, con la complicità di una politica capace di inventare sempre delle “buone intenzioni” per agire contro chi non è completamente integrato.

Mi sembra che in questo film si definisca una proposta di cinema interessante, in modo particolare per chi privilegia una lettura politica delle immagini, per chi crede alla costruzione di un immaginario capace di contrastare quello dominante, di rimettere in discussione gli elementi dati. Ovviamente non si tratta di una novità assoluta, anzi la medesima strada è stata percorsa da autori “illustri”, come Romero con i suoi morti viventi, figure che abitano nel fondo dei nostri sogni e dunque capaci di sgretolare la pacifica illusione di un sociale privo di conflitti, quando ci vengono a trovare attraverso la rappresentazione cinematografica.

Tuttavia tra le modalità di messa in scena che si caricano di valenze simboliche di natura politico/sociale, sempre più in questi ultimi anni assume maggior forza non tanto l’ignoto oltre la vita, le presenze invisibili o materialmente concrete di chi non c’è più, dei seppelliti mai per sempre, quanto la presenza in campo di un mezzo di registrazione ulteriore a quanto già stiamo assistendo. L’intervento della telecamera, quale protagonista principale della costruzione filmica, permette lo svelamento del mezzo televisivo stesso, di andare al di là della banalità dell’elettrodomestico da sguardo distratto. L’apparente neutralità delle immagini che passano attraverso lo schermo piatto (solo pochi hanno ancora il tubo catodico, che altre suggestioni provocava) precipita in Rec (horror spagnolo, di cui presto vedremo in Italia il sequel) o anche in video postumi, testimoni senza autore, quasi frutto di videocamere a circuito chiuso, meglio ancora in una memory card come nel caso di Coverfield, in un gioco continuo di inversione di senso tra verità e finzione, pensiamo ad esempio a The blair witch project.

Le forme che a diversi livelli – non escluderei tra l’altro il rivolgersi direttamente in sala del protagonista sullo schermo che non è per forza di cose una modalità  video-televisiva, si pensi all’ultimo Woody Allen o anche il semplice interpellare lo spettatore puntando gli occhi nella macchina da presa – interagiscono sulle possibilità della finzione, tanto da smantellare la pretesa assertività e oggettività del documentario o i “fatti” dell’informazione dei telegiornali – il mockumentary è esemplare in tal senso – riescono ad offrire una prospettiva molteplice sull’esperienza quotidiana che ci è data da vivere, mimano e danno spessore ad una soggettività scomposta, difficile da ricomporre se non attraverso un montaggio che espliciti il suo farsi. Non ci bastano più due occhi per andare oltre, per avere un quadro d’insieme pure se parziale, almeno da quando c’è il cinema. Ci servono ulteriori visioni per scendere a fondo, non intendo in quantità, quanto in complessità, nell’articolazione logica ed emotiva delle inquadrature che si succedono.

Mi torna in mente American Beauty e la celebre battuta di Ricky Fitts, il ragazzo con la videocamera: “Mai sottovalutare il potere della negazione”. Ricky ha un occhio in più, con cui misurare e prendere la giusta distanza da un padre nazifascio che le emozioni le ha sempre negate. I film fanno crescere la nostra consapevolezza, ci permettono di riconoscere il “gamberone “ che ci passa accanto.

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