Sul volto di un adolescente è difficile capire quando un sorriso indica gioia oppure preannuncia qualcosa di terribile in arrivo. Nel momento in cui la famiglia, la società, la scuola non riescono a creare un’area di riflessione che riesca ad arginare questa emotività incontrollata i ragazzi cercano le risposte, ad un vuoto emotivo ed esistenziale, nell’abuso di droga, nel sesso privo di legami affettivi, nella violenza immotivata in un processo che può essere solo autodistruttivo. Una delle cose più devastanti è vedere un adolescente che si butta via e non riuscire ad impedirlo.
In Detachment gli insegnanti assistono, giorno dopo giorno, al disfacimento di giovani vite in un crescente stato d’impotenza che porta alla deriva le loro stesse esistenze.
Un degradato istituto pubblico della periferia americana. L’autorità derisa è stata quasi completamente annientata. Il dovere è di educare ed istruire ma non è facile farsi ascoltare da adolescenti in cui l’identità è appena accennata e in continua mutazione tra il non sapere chi si è e la proiezione di quello che si sogna di diventare. Quando il futuro compare deludente diventa una minaccia. Perdere la strada accade in un attimo mentre per ritrovarla possono volerci degli anni o non può bastare una vita.
La scuola e il mondo compaiono come il girone infernale dei teenagers nel cui vortice viene smembrata ogni cosa. Il protagonista, col suo metodo del ‘distacco’, sembra l’unico che riesca a non mollare gli ormeggi di questo barcone lacerato ormai alla deriva.
Dalla strage, che si prefigura in questa guerra, dovrà cercare di non soccombere e di salvare qualche vita. Intorno a lui i suoi colleghi escono letteralmente fuori di testa. Per andare avanti si affidano a psicofarmaci, si aggrappano disperati l’uno ai brandelli dell’altro in estenuanti confronti per capire quale sarà il prossimo piano d’attacco dopo il fallimento dell’ultimo. Ognuno cerca di sopravvivere come può al dilagante nichilismo. Gli studenti sono esseri apatici, demotivati, incontrollabili, minacciosi. Gli esiti vanno dallo stordimento tramite droghe e sesso, al disinteresse, al gesto violento o alla genialità creativa nel caso della fragile Meredith oppressa dal rapporto col padre.
Henry Barthes è un supplente irreprensibile: questa è l’arma per tenere sotto controllo la sua classe di ragazzi difficili e i ricordi rimossi della sua infanzia. Cerca di fare la cosa giusta per i suoi studenti, per suo nonno che sta morendo in clinica e per la prostituta minorenne che ospita a casa sua.
Tenere tutto sotto controllo, questa è la strategia di Henry, così riesce a sopravvivere ma non a vivere. Colpo dopo colpo il suo scudo vacilla e poi si rompe facendo emergere tutte le emozioni soffocate . Finalmente Henry lascia la superficie e affonda, scivola giù, entra in contatto con se stesso e il suo doloroso passato per poter riemergere e vivere pienamente il futuro anche se le sconfitte saranno più numerose delle vittorie. Perderà la sua sensibile allieva Meredith schiacciata dai complessi di inferiorità ma forse riuscirà a salvare la lost girl Erica.
Come in Elephant si viene avvolti da una costante e crescente atmosfera di distruzione imminente. Una bomba a orologeria che Gus Van Sant alimenta per stasi e concettualismi mentre Tony Kaye, all’ opposto, crea attraverso forti dinamismi visivi e verbali.
L’eclettico regista inglese già nell’acclamato American History X aveva affrontato le strade buie dell’odio in cui si possono perdere le giovani generazioni. Kaye assale lo spettatore attraverso un complesso montaggio incalzante e destrutturante in cui alterna, al normale flusso della storia, inserti mockumentary con finte interviste ai personaggi, sequenze di disegni animati e fotografie, improvvisi frammenti flashback paralizzanti come un cortocircuito. Gioca sull’alternanza tra b/n (irrealismo) e colore (realismo). La crudezza della camera a mano vibra sui volti ardenti o sfatti dei protagonisti. Uno stile registico mutevole che mette a dura prova l’ occhio pigro alle sperimentazioni. Un organismo espressivo molto carico e difficile da digerire ma assolutamente efficace nel rilascio emotivo. Propone una panoramica inedita e approfondita su storia e personaggi sfruttando puramente il linguaggio visivo nelle sue diverse forme, creando più linee narrative.
Il film non delude nemmeno nella sceneggiatura firmata da Carl Lund, un ex insegnante di scuola pubblica diventato scrittore e produttore. Forti e immediati, i dialoghi concentrano tensione e sensibilità nonché colte citazioni. La scuola non sa più cosa fare. Quando nei giovani si respira il tanfo dell’ indifferenza, dell’anaffettività, della disillusione il futuro appare interrotto.
Detachment è un film apocalittico sull’ istituzione scolastica e parallelamente sulla sofferenza di un uomo ferito che fugge da se stesso e dagli altri rifiutandosi di crescere come non crescono i suoi allievi chiusi in un atroce limbo regressivo.
A dare vita a questo intenso personaggio, fragile come una canna al vento ma difficile da spezzare, è un sorprendente Adrien Brody che come un alieno kafkiano piomba in questa catastrofe esistenziale giovanile con in mano Il crollo della casa Usher di Edgar Allan Poe. Una perfetta allegoria della realtà scolastica di cui fa parte. Studenti e insegnanti con vite lesionate che stanno crollando portandosi dietro i loro spettri irrisolti.