di Fabrizio Funtò/ Una demolizione psicanalitica e filosofica si rende necessaria per Jake Gyllenhaal, dopo l’esperienza di aver perso la moglie in un incidente d’auto nel quale le sedeva a fianco.
La demolizione che il film fa vedere in maniera dissacrante, ostinata, antiestetica e lancinante, è ovviamente una metafora di un aspetto dettagliatamente descritto in quel libro che ha segnato indelebilmente la filosofia moderna: “Essere e Tempo”, di Martin Heidegger.
Probabilmente il libro più complesso da leggere al mondo, perché non comporta la semplice lettura e acquisizione dei concetti contenuti, ma costituisce una vera e propria esperienza di vita, un viaggio di trasformazione interiore per quei pochissimi fortunati che hanno potuto affrontare questo testo e forzarne — col grimaldello della propria intelligenza — la intricata combinazione di lettura.
Libro ancor più complicato da scrivere, poiché lo stesso autore non è riuscito a completarlo per carenza di forza di Spirito e forse per sopraggiunta spossatezza. Gli sono mancate le parole.
Non ve ne parlo naturalmente qui, ma questo film ne costituisce quasi un manuale perfetto, almeno per la prima parte del volume. Dove si tratta della inautenticità della vita, e dove il “si dice” e il “si fa” (vale a dire l’abitudine del procedere di una vita quotidiana indifferente, di massa, di numeri) assurgono a categorie fondanti di un profondissimo pensiero filosofico. La “chiacchiera” — segno infallibile di inautenticità dell’esistenza — diventa un concetto filosofico elevatissimo.
Non saprei giurarvi che tutta questa conoscenza fosse presente nello sceneggiatore prima, e poi nel regista: se appresa direttamente o mediata dagli scopiazzatori universali francesi dei filosofi ben più corazzati teutonici. Nel nostro caso, magari da un bel Jacques Derrida da collezione.
Sta di fatto che Jake vive una vita facile, anonima, inutile. Immerso nella folla indistinta che si reca quotidianamente al lavoro, abbagliato da tutte le forme di corruzione sociale: sposa la figlia di un magnate della finanza, viene quindi assunto per nepotismo conclamato nell’azienda della sua nuova famiglia, fa lo stronzo come tutte queste canaglie che agiscono coi numeri e se ne infischiano dell’impatto sociale delle loro speculazioni finanziarie.
Quello che a tutto il mondo sembra un matrimonio riuscito e una vita serena sono in realtà il suo inferno. La sua spersonalizzazione. La sua follia. Un’adorabile e tiepida follia.
Ma, come si è soliti ripetere, il diavolo si nasconde nei dettagli più minuti, si ficca negli interstizi vuoti, nelle piccolissime crepe che il modello sociale — non completamente ottimizzato — lascia scoperte: Matrix ha sempre un telefono fisso, da qualche parte, in una oscura stazione di metropolitana in disarmo, dal quale sfuggire agli agenti Smith.
Per Jake il diavolo si chiama M&M: una confezione di smarties di cioccolata, che proprio non vuole scendere dal distributore automatico, nel quale ha inserito il suo dollaro d’annata. Si blocca sul più bello. Al posto di farsi un dannato, onnipresente e narcisistico selfie con il distributore, ne fotografa l’etichetta. E, una volta a casa, non potendo parlare con nessuno di quel mondo inautentico e micidiale in cui comincia a capire di vivere, nel quale deve fingere di impersonare la parte che è stata scritta per lui dal tempo dei tempi, prende carta e penna e scrive un reclamo alla ditta.
In realtà, scrive un reclamo contro la vita, ed il rimborso che chiede non è per quell’indifferente dollaro inserito nella infernale macchinetta bloccata, ma per quell’indifferente vita che conduce ogni giorno, sul treno, coi viaggiatori abituali e sconosciuti, cui mentire è un obbligo.
Scrive, Jake. E scrive, e ancora scrive. Ma non si sfoga: il suo è un reclamo, una rivendicazione di verità, di autenticità. E comincia a diventare sincero. Non accetta più di mentire: vuole finalmente andare a vedere come è fatta Matrix, di che stoffa si componga direbbe Shakespeare. Cosa c’è sotto la superficie delle cose.
Cosa c’è dietro la facciata che imbianchiamo ogni mattina. E assistiamo quindi al suo scivolamento nella autenticità — che prevede una critica feroce, distruttiva della propria costruzione mentale. Qui risolta visivamente con la distruzione come atto dovuto, come necessità interiore, come desiderio di conoscenza infantile o primigenio, originario, ancestrale.
Qualcosa di simile alla ossessione che alberga nelle menti dei serial killer, i quali dopo aver carpito la preda si accaniscono sul suo corpo per scoprirne il segreto traliccio della vita, l’architettura interna, la meccanica dell’esistenza confondendo il senso con il significato. La torrida follia.
Improvvisa, inaspettata, sorprendente è la telefonata del Custom Service, di Naomi Watts che alle due di notte, dopo aver letto le prime quattro epistole del reclamante, e dopo un abbondante pianto di consustanzialità, chiama il suo “cliente insoddisfatto”. Inizia così con lui un rapporto ossessivo-liberatorio, nel quale si immerge anche suo figlio colto nell’attimo kierkegaardiano di dover decidere a che tendenza sessuale appartenere: mono-, bi-, multi-. O altro.
Non è un film per critici cinematografici, e credo che lasci allo spettatore un vago sapore di “incompiuta”. Però è un test interessante che potrete fare su voi stessi: se, di fronte alla strage di oggetti plasticamente e ossessivamente rappresentato sullo schermo, con molte insistenze, vi viene da pensare: “che peccato per tutta quella roba, forse si poteva rivendere, se proprio non la voleva tenere”: allora vi trovate anche voi nel pieno di una situazione di inautenticità: la febbre è alta anche dentro di voi. Dovete tenere le mazze da muratore a distanza.
La distruzione determina sempre una ricostruzione; una demolizione determina un restauro. Ma di cosa?
credo ci sia anche un piano più intimo che rimane celato ma che si imprime attraverso il silenzio sul corpo e la complessità del personaggio e la sua irraggiungibilità emotiva, un amore che non si riesce ad esprimere e a riconoscere in vita e che non si riesce a piangere alla sua scomparsa, se non alla demolizione del tabù stesso
E poi c’è un modo del tutto privato, di percepire i sentimenti e il dolore, non accessibile agli altri, che solo la camera scruta soffermandosi su brevi espressioni impercettibili espressioni. E mi vieni in mente Pavese :
Io d’amore non so piangere E. – piango a sentire un’ingiustizia, una crudeltà, un dolore di bambino – e non posso nemmeno consacrarti delle lacrime per tutto il dono immenso che hai fatto a me in questi giorni. Piangerò forse quando ripenserò – e sarà tardi – al tesoro di quell’amore sprecato così, per uno che non ne vale la pena: tant’è vero che lo lascia ora morire senza nemmeno commuoversi, senza tentare di far nulla per conservarselo, meritarselo.