Sotto la banchina della metro, al solito frequentata da comuni pendolari-vampiro in attesa del treno, i cunicoli sotterranei brulicano di subsiders, vampiri paria troppo poveri per potersi procurare il sangue e perciò ridotti alla fame e alla disperazione. Il movimento della mdp che descrive la scena – un lento carrello frontale dall’alto verso il basso a scoprire i reietti – racconta già l’intero film. E’ l’anno 2019 in Daybreakers, la location una qualsiasi metropoli occidentale post-apocalittica, e il potere è in mano ai non-morti. I quali, in seguito a un’epidemia che ha ridotto la popolazione umana al 5% degli abitanti il pianeta Terra, hanno edificato una società dall’impianto aggressivamente capitalistico, rigidamente divisa in classi, in cui il sangue, fonte primaria del sostentamento, è privatizzato.
Entrando in sala per vedere questo piccolo, interessante horror di produzione americano-australiana, lasciate a casa il Dracula di Stoker e l’immaginario classico legato alla figura del conte transilvano; dimenticate l’iconografia religiosa e le implicazioni erotiche sottese al desiderio di potenza del principe Vlad; scordatevi la raffinata lettura sadomasochista che vuole le vittime del mitico morso inconsciamente consenzienti al contagio. Daybreakers non indugia in filologismi, azzera l’eredità dei modelli da cui discende dandola per assodata e sposta i blocchi di partenza più avanti: il suo obiettivo è dare un’occhiata al domani più che al passato archetipico, a quando i vampiri avranno conquistato il potere (oh sì che lo faranno!) e si saranno già posti il problema del governo. Li conoscevamo come esseri solitari, liberi e inquieti, refrattari a qualsiasi inquadramento e all’idea stessa di comunità, li ritroviamo qui il giorno dopo il trionfo con le stesse priorità e contraddizioni di una maggioranza di centrosinistra uscita vittoriosa dalle elezioni. Nient’altro che comuni cittadini, uomini d’affari in giacca e cravatta che bevono civilmente il sangue dai bicchieri; incasellati in una società ordinata e operosa, sono più che altro dediti all’accumulo di beni e alla loro difesa. Altro che principi medievali. Il modello di società che hanno instaurato riproduce precisamente quello nostro contemporaneo.
Daybreakers è dunque essenzialmente un racconto distopico, che guarda cioè al futuro per parlare al presente. Non è una novità nel cinema di genere, tanti autori e film del passato hanno battuto questa strada. Quando si parla di non-morti e di connesse letture ideologiche il pensiero corre subito a George A. Romero e in particolare al quarto capitolo della sua saga dei morti viventi, quel Land of the Dead, che era molto meno un horror-movie che un saggio politico in immagini (ma gli esempi potrebbero essere mille altri). Dalla loro Michael e Peter Spierig, giovani fratelli australiani al secondo lungometraggio dopo l’esordio di Undead (dove si confrontavano con l’altro archetipo sommo del genere, gli zombie), possono contare su una sorprendente precisione nella definizione del loro discorso allegorico e su un apparato visivo decisamente sopra la media per un B-movie.
Del primo elemento si è in parte già detto; l’assunto anticapitalista, pur scoperto e grezzo, risulta in tutto efficace. Nel 2019 è una multinazionale a detenere il governo della cosa pubblica attraverso la gestione del sangue. Raziona d’imperio il plasma e tiene in vita artificialmente gli esseri umani solo per assicurarsi provviste del prezioso liquido. Quando le scorte cominciano ad esaurirsi – ecco l’evento scatenante – non esita a giocare sporco con la salute pubblica per far tornare i conti dei profitti. I miserabili subsiders, mendicanti di sangue che vagano per la città, vengono progressivamente emarginati, esclusi dal consesso sociale, fino al punto di trovarsi perseguìti come i peggiori criminali dalla brutale polizia al soldo del capitale. La blood riot che a metà della storia costringe le autorità a dichiarare lo stato d’emergenza (e che costituisce forse la scena più spettacolare e spaventosa del film) è un vero e proprio assalto ai forni. E’ la Crisi Mondiale messa in scena.
Certo, allo sviluppo di un così interessante discorso “politico” avrebbe giovato una sceneggiatura più solida e avveduta. Invece, dopo la prima parte tutta giocata sulla presentazione della società vampiresca, Daybreakers imbocca sempre le vie più facili, che sono in sostanza, per un film del genere, quelle dell’action più spicciolo: i momenti potenzialmente più stimolanti da un punto di vista “filosofico” vengono risolti con un bell’inseguimento, un rozzo colpo di scena o una sparatoria vecchio-stile; i personaggi sono niente più che funzioni narrative. Il finale, affrettato e insoddisfacente rispetto all’idea che lo muove, grida vendetta.
Tuttavia questi difetti – senza i quali, è bene dirlo, Daybreakers si potrebbe tranquillamente celebrare come un piccolo gioiello del genere – non fanno dimenticare l’impatto visivo (ecco il secondo elemento di cui si diceva più su) che soprattutto nella prima parte il film riesce a produrre sullo spettatore. I fratelli Spierig creano un mondo a misura di vampiro assolutamente coerente e verosimile. Una serie di piccoli e grandi dettagli costituisce i necessari puntelli di una vita al contrario: le case sono dotate di tunnel sotterranei per permettere i trasferimenti diurni, altrimenti impossibili per i vampiri; le auto sono provviste di un particolare sistema che permette la guida anche in pieno giorno; gli esseri umani vengono letteralmente coltivati in laboratorio, e così via. L’estetica è infallibile. Gli interni bianchi e spogli delle case sono innervati di un freddo minimalismo hi-tech che è specchio del gelo interiore di chi li abita, nonché ragionevole evoluzione architettonica delle più avanzate declinazioni del design contemporaneo. Da essi si sprigiona una sensazione di inquietudine e di angoscia che buca lo schermo. Quei vampiri, ancora una volta, siamo noi.