[-] – Clara arriva da Parigi a Roma chiamata dal regista teatrale Abele a collaborare all’allestimento di una pièce sulla memoria dell’Olocausto. Insieme cercano di impostare i personaggi, ma ben presto sorgono dei contrasti sul modo di rappresentare l’irrapresentabile”: Clara vorrebbe partire dalle esperienze singole, personali dei sopravvissuti, Abele invece vuole mantenere un tratto oggettivo. Fin qui la storia potrebbe essere ben congegnata: poi però sembra che si vada in cerca di qualcosa, come se la messa in scena fosse sempre di là da venire, e sembra che neppure al regista (il pur bravissimo Trevisan, che scorazza a suo piacimento tra scrittura, recitazione e musica) sia chiaro dove andare a parare.

Il film affastella prove di spettacolo a materiali di repertorio sui campi di sterminio, si passa dagli interni di un teatro underground alla risiera di San Saba a Trieste, altro luogo dell’irrapresentabile, al manicomio dove Franco Basaglia rivoluzionò il trattamento delle malattie mentali.

Proprio il centro psichiatrico triestino dovrebbe fare da scenario naturale dello spettacolo di Abele e Clara. A Trieste i protagonisti approdano alla riscoperta della memoria, quella collettiva per Abele, quella personale per Clara, che ritroverà il padre che l’aveva abbandonata da piccola.

Troppo. Un film che si affanna a dire tutto per timore di non dire niente.

Dialoghi forzati e improbabili, un senso di artificiosità che cresce con il progredire del film, seguiamo dall’inizio alla fine le peregrinazioni di un’idea di rappresentazione che si rifiuta di diventare spettacolo, che ripudia anche la funzione stessa dell’attore, come se la resa di Abele fosse anche la nostra, come se la sua incapacità di tenere uniti i materiali raccolti per lo spettacolo significassero l’incapacità di dare forma all’orrore.

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