Come restituire l’esperienza della visione di un documentario come Dal ritorno? un film che proprio attorno al quesito del se e come trasferire all’Altro un’esperienza di vita – estrema e unica: la detenzione in un campo di concentramento durante la Seconda guerra mondiale – costruisce la sua ragion d’essere? Forse, semplicemente, esponendo i fatti.
Silvano Lippi ha novant’anni e solo da dieci o poco più ha ripreso a raccontare dei mesi di prigionia vissuti a Mauthausen. Lì fu condotto dopo l’8 settembre 1943, uno fra i seicentomila soldati italiani, fatti prigionieri dai tedeschi, che si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò. Tornato a casa, alla fine della guerra, si scontrò con lo scetticismo di familiari e amici, increduli dei suoi racconti di indicibili violenze subite e osservate. Umiliato e sconfitto, fu spinto al silenzio, sottraendosi al ricordo fino al 2001 e covando intanto l’ossessione per quell’incredulità, la stessa di cui in quegli anni scriveva Primo Levi. Ora, da quando ha ripreso a ricordare, non si ferma più. Ha scritto un libro (39 mesi. 60 anni dopo, Edizioni Multimage), incontra scolaresche, ha mille storie da raccontare e “un cinematografo nella testa”, ripete. Quando conosce il regista Giovanni Cioni, acconsente subito, seppure molto anziano e ammalato, all’idea di un film sulla sua storia. Più precisamente, vuole tornare a Mauthausen, lì dove in fondo è sempre rimasto, essere filmato all’interno del campo. Il regista e il protagonista stringono un patto.
Cioni presenta il film nella forma di una lettera-invocazione che lui indirizza a Silvano, inserendo immediatamente tutto quanto vediamo e ascoltiamo dentro i termini di una “pura” relazione tra due uomini. E quanto vediamo e ascoltiamo non è altro che il volto scavato dell’anziano uomo e le sue parole precise che rievocano i trentasei mesi di un incubo personale che fu in realtà la notte dell’umanità. Addetto dalle SS alle camere a gas e poi ai forni crematori, a Mauthausen Silvano vide morire dopo immani sofferenze i suoi più stretti compagni, fu torturato con i fili elettrici, mangiò la minestra leccandola dalle pietre e dal pavimento, staccò cadaveri gasati avvinghiati tra di loro, fu costretto dietro la minaccia delle armi ad affogare con le sue stesse mani un prigioniero russo che aveva chiesto da bere.
A tratti, nel ricordo, la sua voce si rompe, sopraffatta dalla commozione, ma il dovere di raccontare è più forte. E mentre Silvano racconta, le immagini restituiscono quasi sempre il suo volto in primo, a volte primissimo piano, ripreso all’interno della clinica dove è ricoverato. Nessun repertorio a sostegno, la memoria per Cioni è una questione di occhi. Quale unico saltuario controcampo, la camera si aggira tra le mura mangiate dal tempo e i corridoi deserti di un luogo abbandonato, che piano piano capiamo essere Mauthausen. È un preludio a quanto avverrà più avanti. Silvano non può partire, la malattia si è aggravata. Cioni andrà da solo. Prima della partenza, Silvano lo istruisce: chiude gli occhi e gli illustra in dettaglio la mappa mentale del campo. Cioni va a Mauthausen a filmare senza Silvano, ma delle immagini che gira lì, il regista di fatto è Silvano.
“Mi vedi? Riesci a vedermi lì dentro?”, continua a ripetere Silvano mentre nelle battute conclusive del film è al telefono con Cioni – uno a Mauthausen, l’altro no. Nella domanda straziante riemerge ancora la sua ossessione: come se le parole dei suoi racconti, pure così dettagliate, non bastassero senza il supporto di una testimonianza visiva, come se ottenere da Cioni una impossibile prova documentale dell’orrore avvenuto, questo solo potesse vincere quella incredulità che, quasi più dei mesi di prigionia, ha segnato la sua vita. Silvano farà giusto in tempo a vedere il girato, spegnendosi pochi giorni dopo, durante il montaggio del film. Cosa i suoi occhi abbiano fatto in tempo a vedere in quelle immagini, non lo sapremo mai.
Dal ritorno, passato nella rassegna napoletana Astradoc, che ogni settimana accende un riflettore sulla vasta zona d’ombra del cinema documentario per la sala, ci appare in questo senso uno straordinario film di fantasmi. Che, mettendosi anima e corpo al servizio di uno degli ultimi superstiti dei campi di sterminio, fino a farsi carico del suo sguardo, e quindi del suo orrore, ci mostra come il cinema possa servire a rendere presente la memoria, fuori da ogni retorica e logica commemorativa.