La Borgata Finocchio, periferia est di Roma, si estende lungo la via Casilina all’altezza del diciottesimo km. Finocchio è una “borgata spontanea”: così vengono denominate le zone urbane sorte in assenza di piani regolatori, edificate da privati con ampi margini di libertà. Territorio dell’VIII municipio, il Municipio delle Torri, alle spalle delle fitte abitazioni che costeggiano la consolare si aprono ancora prati e qualche vigneto. A Finocchio, nel febbraio del 2002, un terreno con annesso un fabbricato di sei piani mai ultimato è stato espropriato dopo oltre venti anni di abbandono e degrado. A Finocchio, la mattina di lunedì 17 dicembre, si è tenuta l’inaugurazione della Collina della Pace e il terreno che fu di proprietà della Banda della Magliana è divenuto ora un parco dedicato alla memoria di Peppino Impastato. Alla cerimonia erano presenti, tra gli altri, il Sindaco di Roma Walter Veltroni, il Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia on. Francesco Forgione e Giovanni Impastato, fratello di Peppino.
Giovanni è oggi vicepresidente del Centro Siciliano di Documentazione sulla mafia “Giuseppe Impastato” e membro dell’associazione “Peppino Impastato – Casa della Memoria”. Insieme alla madre Felicia Bartolotta Impastato, la lotta di Giovanni è proseguita dopo la morte di Peppino divenendo una lotta per la giustizia, per la memoria e contro la cultura mafiosa.
Per Giovanni la mafia non è una questione estetica; tuttavia Giovanni, appassionato di cinema, si è reso disponibile a dialogare con noi sui temi della rappresentazione della mafia nella letteratura, nel teatro e nel cinema; e sul ruolo che i mezzi di comunicazione sono chiamati a svolgere nella costruzione di una cultura dell’antimafia.
Schermaglie ha di recente pubblicato articoli sulla trasposizione teatrale di Gomorra, spettacolo tratto dal libro di Roberto Saviano, e sul film di Claudio Fragasso Milano Palermo il ritorno. Due maniere antitetiche di trattare il tema della criminalità organizzata. Possibilità e limiti della rappresentazione cinematografica di fenomeni culturali quali la mafia: ti va di raccontarci qualcosa sulla tua esperienza con il mondo del cinema?
Se ti riferisci a I cento passi posso dirti che secondo me si tratta di un film riuscito perché c’è stato un incontro tra realtà e cinema e questo è avvenuto con la massima umiltà. Certo, il regista (Marco Tullio Giordana) è stato molto creativo perché una trasposizione cinematografica, quando si tratta di una storia vera, non è facile. Quando si gira un film sulla storia di un personaggio reale spesso i parenti non rimangono soddisfatti del risultato. Ho visto pochissime persone parlare bene di un film girato su un loro amico, su loro padre o su loro figlio. Nel nostro caso è diverso perché c’è stata una grande collaborazione.
In quale fase del progetto de I cento passi siete stati contattati dalla produzione?
Noi, io in particolare e in misura minore mia madre, siamo entrati in contatto fin dall’inizio con il produttore e con il regista. La storia di Peppino la sentivo già come un film: era una storia predisposta alla trasposizione cinematografica. Non c’è solo la parte dell’impegno culturale e politico, ma c’è anche una parte drammatica molto forte. Questa è venuta fuori nel film e si è coniugata molto bene con l’aspetto della lotta alla mafia grazie soprattutto alla bravura del regista. Io posso dire di aver avuto un ruolo importante nelle fasi di preparazione del film: ho accompagnato il regista e lo scenografo nei sopralluoghi per la scelta delle location, guidandoli attraverso i luoghi in cui realmente si erano svolti i fatti. Conosco bene quei posti, sono vissuto lì. Così alcune scene sono state girate esattamente nei luoghi originali, come quella famosa dei “cento passi” o quella in cui mia madre va a trovare Peppino e lui le fa leggere una poesia di Pasolini. Altre purtroppo sono state girate in luoghi diversi da quelli originali per esigenze della produzione.
Allo stesso modo ho raccontato la storia di Peppino allo sceneggiatore (Claudio Fava) e lui, basandosi sul mio racconto, ha scritto una prima bozza. Successivamente la sceneggiatura è stata riscritta e presentata al premio Solinas, dove ha ricevuto una menzione speciale, per essere poi arricchita dallo stesso Giordana. In totale è stata riscritta diciassette volte. Ancora mentre si girava il film la sceneggiatura non era definitiva: man mano che ricordavo qualcosa, loro modificavano, aggiungevano, tagliavano. Una collaborazione forte che credo riesca a emergere durante la visione del film.
C’è stato, certo, anche lo scontro: nelle discussioni loro rappresentavano gli interessi del cinema come linguaggio e come industria, io le esigenze della storia e della realtà. Loro tendevano ad aggiungere in fantasia, io in realtà. Fortunatamente mi sono reso conto che non potevo continuare a tirare la corda e questo è stato un bene. Solo dopo mi sono reso conto che il cinema ha delle esigenze di spettacolo per cui una storia non può scorrere piatta così come è accaduta nella realtà.
Ricordi un motivo di scontro in particolare?
Uno scontro aspro, duro lo abbiamo avuto sul tema della storia d’amore di Peppino. Il produttore in particolare sembrava tenere molto a darle un certo risalto. Giordana invece sembrava capire di più le mie esigenze. Secondo me, il protagonista della storia doveva essere Peppino, la sua lotta e l’atmosfera di quegli anni: la ribellione giovanile, il Sessantotto, la prima guerra di mafia. Una storia d’amore rischiava di allontanare l’attenzione dello spettatore dalla sua figura e soprattutto avrebbe allontanato il film dalla verità perché Peppino, nella realtà, non ha avuto nessuna storia così eclatante, così forte da potersi raccontare nel film. Molti sono convinti che per incassare bene un film debba contenere una scena d’amore, una scena di violenza e una scena di sesso. Ne I cento passi non c’è violenza e non ci sono scene di sesso. Secondo me bisognerebbe sempre evitare i falsi e privilegiare magari la verosimiglianza. Noi abbiamo ricostruito in maniera molto verosimile la scena dei cento passi e quella del monologo di Tano.
Intendi la scena nella pizzeria quando Tano Badalamenti offre a Peppino la possibilità di riscattare tutte le offese e gli oltraggi arrecati alla mafia con un semplice caffè?
Sì. Nella realtà non è avvenuta in quel modo, ma era importante mostrare allo spettatore come agisce e ragiona un uomo di mafia. Quando si è deciso di girare questa scena, che nel film vede il personaggio di Giovanni e quello di Peppino in silenzio mentre Tano gli fa la romanzina, abbiamo scelto la forma del sogno come strumento di verosimiglianza, così da preferire l’escamotage al falso.
Stesso discorso per la scena dei cento passi. Io e Peppino ci siamo posti sempre il problema della breve distanza tra casa
nostra e casa di Badalamenti, tra la vittima e il carnefice. I passi li contavamo anche verbalmente, ma timidamente. Solo grazie a come è stato girato e messo in scena, quello che era un gesto innocuo diviene un gesto simbolico in grado di emozionare lo spettatore.
Un film mentre racconta è costretto a selezionare. Alcuni aspetti della vicenda di Peppino e della tua famiglia sono stati tralasciati. Cosa è successo a tuo padre? Come ha vissuto tua madre il distacco di Peppino dalla famiglia?
La morte di mio padre è stata un omicidio mafioso, ma quando il film è stato girato non avevamo riscontri precisi. Quello che si vede nel film comunque è reale. Quando mio padre ha saputo che Peppino doveva essere ucciso ha cercato di salvarlo e questo per un uomo vincolato dal giuramento mafioso non è ammissibile. Nella mafia quando la cupola si riunisce e decide che una persona deve essere uccisa nessuno si può opporre; anzi è il padre che dovrebbe uccidere il figlio. Possono tollerare che un padre faccia finta di nulla, ma che si opponga non è tollerabile. Per questo fu ucciso.
Mia madre invece si trovava, se vogliamo, in una situazione ancora più difficile. Lei era, allo stesso tempo, la moglie di un mafioso e la madre di un militante della sinistra che si opponeva alla mafia. Mia madre sapeva fin da giovane che mio padre era un mafioso, ma a quel tempo non c’era una coscienza della mafia come organizzazione criminale. Anche noi ragazzi guardavamo i mafiosi con grande ammirazione perché erano quelli che ci proteggevano, erano rispettati. Nel nostro gruppo è stato Peppino ad aprirci gli occhi. Mia madre, mediterranea intrisa di cultura cattolica, ha rispettato il marito fino alla fine e quando è stata costretta a fare una scelta, ha scelto di stare dalla parte del figlio, dalla parte della giustizia e della legalità.
L’attività politica di Peppino inizia a metà degli anni Sessanta. Allora il reato di associazione mafiosa non esisteva. Fu introdotto solo nel 1982 dopo l’assassinio di Pio La Torre. Le denunce degli abusi mafiosi non giungevano dalle istituzioni, ma da giornalisti come Mario Francese o registi come Francesco Rosi o Damiano Damiani. Quali tra questi nomi vi ha maggiormente influenzato?
Salvatore Giuliano (Francesco Rosi, 1964) è un capolavoro, ma più di tutti siamo stati influenzati dagli scritti di Leonardo Sciascia. Quella di Peppino fu una presa di coscienza molto precoce: puntava già il dito contro le implicazioni economiche della mafia.
Peppino ha condotto la sua lotta portando la battaglia sul campo della rappresentazione della mafia e usando mezzi di comunicazione quali la radio e il teatro per mettere in discussione aspetti della cultura mafiosa quali la virilità, il rispetto, l’omertà e l’impunità.
Peppino ha messo in ridicolo i mafiosi con l’arma dell’ironia e ha incrinato quell’alone di rispetto che i mafiosi si erano costruiti con le prepotenze e le collusioni politiche. Quella di Peppino era una satira fatta bene nonostante fosse tutta improvvisata, che faceva ridere l’intero paese mettendo alla berlina valori come il denaro e il potere che non sono soltanto miti mafiosi.
L’informazione sulle attività della mafia e delle organizzazioni criminali in genere è un compito che concerne ai telegiornali e ai magazine specializzati. A giudicare dalle ultime programmazioni invece sembra che le fiction abbiano ricevuto una sorta di delega a raccontare le storie di mafia: è appena terminata la serie Il capo dei capi e un’altra è stata rinviata a febbraio (La vita rubata, sulla storia di Graziella Campagna). Il racconto televisivo ha la stessa efficacia di quello cinematografico?
Se il prodotto è sincero e incisivo può essere una testimonianza valida e un supporto per parlare della mafia nelle scuole ad esempio. Mi sembra però che nelle ultime fiction, anche leggendo i giudizi sulla stampa, mostri del calibro di Totò Riina siano stati tratteggiati con troppa benevolenza. Bisogna fare attenzione: chi va al cinema a vedere Il padrino è consapevole di assistere a una versione romanzata della mafia. Lo spettatore televisivo, invece incontra casualmente le immagini del personaggio di Riina che coltiva la famiglia e gli affetti e recita la parte del padre e marito premuroso: allora potrebbe fraintendere e scambiare i mafiosi per gente coraggiosa che ha rischiato la vita. In questo caso sarebbe un servizio negativo.
Rimpiangi La piovra?
La piovra allora non mi entusiasmò molto. Esaltava l’eroismo del singolo mentre quelle di oggi esaltano il lavoro di gruppo. La gente si immedesimava più nelle vicende personali del commissario che nelle vicende di mafia. La piovra era una fiction di fantasia che viveva di stereotipi, era manichea. Diceva: da una parte ci sono i buoni, dall’altra i cattivi. In fin dei conti, questa non è certamente un’interpretazione realistica della mafia, ma forse è meglio l’eroismo a senso unico del poliziotto o del magistrato piuttosto che una umanizzazione dei boss.
Conosci il libro di Roberto Saviano, Gomorra?
Ho letto il libro. Saviano è stato molto bravo a riordinare episodi che si conoscevano, a metterli insieme e a trarne anche lui un discorso romanzato. Sono contento che in molti lo abbiano letto, è importante. A me piace quando un libro è letto da decine di migliaia di persone.
Questo successo secondo te è dovuto ad un cambiamento avvenuto nella società civile o lo si deve al sensazionalismo suscitato dagli impressionanti dati economici presenti nel libro?
Credo che gli aspetti economici e materiali delle attività della camorra, fatti reali su cui il libro è incentrato, abbiano avuto un peso rilevante. Il libro in sé è molto semplice.
È semplice e si presta ad adattamenti e trasposizioni. Sai che è stato presentato in teatro e nel 2008 ne uscirà anche il film (per la regia di Matteo Garrone)?
Del teatro mi fido molto, del cinema meno. Non che diffidi del cinema come mezzo di comunicazione. Anzi, gli devo molto. Secondo me però, Gomorra in particolare ha uno spirito documentaristico che si presta meglio al teatro che al cinema.
(Schermaglie desidera ringraziare per la collaborazione Ilaria Pacelli dell’ufficio stampa di Ecoradio e Armando Morgia, consigliere del VIII Municipio di Roma.)