di Giovannella Rendi/ Per la sua opera prima, la critica aveva scomodato persino Jane Austen e la legge del desiderio, non quella almodovariana, ma quella del tempo che fu, quando l’opinione della famiglia, degli amici e del referente religioso della comunità pesava come un macigno, quando dovevi stare bene attenta a valutare la persona perché ci dovevi passare tutta la vita e indietro non si torna, e soprattutto perché quando è vietato il minimo contatto fisico il semplice sguardo di un uomo incendia ben più dei coreografici amplessi che oggi si possono praticare dieci minuti dopo essersi conosciuti e che infestano tanto cinema contemporaneo.
Per la sua opera seconda, qualcuno ha tirato in ballo Bridget Jones, che in fondo è una delle tante figliastre che non si sa quanto la nubile miss Austen avrebbe riconosciuto (sospettiamo avrebbe apprezzato l’umorismo tutto british della scrittrice Hellen Fielding ma non altrettanto le inguardabili trasposizioni cinematografiche che continuano a funestarci – la terza appena sfornata). Certo è che la regista israeliana Rama Burshtein ha indiscutibilmente cambiato registro, pur mantenendo la sua caratteristica fondamentale ovvero di essere una regista ebrea ortodossa che lavora quasi esclusivamente con attori ebrei ortodossi e racconta storie ambientate nella comunità ebrea ortodossa di Gerusalemme. Non che questo sia una sua esclusiva prerogativa (in Israele esiste anche un telefilm di successo che è un po’ la versione ortodossa di Friends) ma di certo conferisce alle sue opere una certa originalità e suscita un certo interesse a causa delle rigide regole sociali di cui sopra. Soprattutto quando affronta più decisamente i temi della commedia, in quanto permane il sotterraneo sospetto che, ebraico o meno, l’umorismo non si associ spesso all’ortodossia religiosa. Ovviamente non è così, sia in questo Appuntamento con la sposa (Through the wall che sarà distribuito in Italia da Cinema di Valerio de Paolis) ma nemmeno nel precedente, bellissimo La sposa promessa (Fill the void) – e qualcuno per favore fucili i traduttori dei titoli italiani.
Al centro dei film c’è sempre il matrimonio e sempre in un certo senso, forzato: la diciottenne Shira è costretta dalla famiglia a sposare il marito della sorella morta di parto, mentre la zitella trentaduenne Michal si organizza da sola la festa di matrimonio, senza nemmeno la sicurezza di un marito, certa che se Dio è buono provvederà lui a fornirglielo entro la data prevista. In entrambi i casi, si tratta di un filling the void, riempire un vuoto, un assenza, intesa sia come la crudele sostituzione di una moglie amata con una sorellina minore vista sempre come tale, sia qualcosa di più sfumato che si colloca in un punto equidistante tra il desiderio di amore e l’ottemperanza ai rituali sociali che esigono che una donna per essere rispettata si debba sposare.
Sia che la protagonista sia religiosa per educazione familiare (come Shira) che per libera scelta convertendosi in età adulta (Michal) l’ambientazione all’interno della comunità religiosa ortodossa, una specie di macchina del tempo in cui si viaggia solo all’indietro, può essere una sfida o un giocare con le sue regole, a seconda che si tratti di dramma o commedia. Nel caso de La sposa promessa, che ha avuto una lunga e difficile gestazione, il merito sta appunto nell’aver saputo evocare dietro una griglia di comportamenti rigidamente codificati il dolore, la solitudine, e la loro evoluzione (qui si che si può citare miss Austen) in desiderio e amore, in questo film invece l’anacronismo delle regole dell’ortodossia affianca al percorso di conoscenza di sè gli stilemi classici della commedia sentimentale. Siamo ben lontani, evidentemente, da qualsiasi elemento critico, in senso politico, religioso o di gender, nei confronti dell’ortodossia, ed è difficile dimenticare l’incipit di Kadosh di Amos Gitai, con il religioso che vestendosi la mattina e indossando i filatteri recita la preghiera che dice “sii benedetto, Dio eterno, per non avermi fatto nascere donna” (non a torto, dato il tragico destino delle due protagoniste del film). Né si può dimenticare che matrimonio e divorzio in Israele sono comunque soggetti alla legge rabbinica, anche per chi non appartiene alla comunità ortodossa, e le tragiche conseguenze di un matrimonio infelice sono state superbamente raccontate dalla compianta Ronit Elkabetz e da Schlomi Elkabetz in Viviane.
Rama Burshtein, pur conferendo un certo spessore alla sua protagonista e al suo carattere tormentato rendendola decisamente simpatica allo spettatore, sceglie invece di collocare il suo film in una sorta di limbo da Doris Day anni ’50 in cui le ragazze portano camicette accollatissime con fiocchettoni, non sfiorano nemmeno la mano di un uomo, ma sono continuamente contattate da anziane signore che combinano loro degli appuntamenti al buio con possibili mariti, di cui elencano rapidamente al telefono età, mestiere, reddito, varie ed eventuali. E quindi l’educazione sentimentale di Michal è periodicamente scandita da questi siparietti al ristorante con davanti un giovane uomo con i cernecchi e la kippah in testa, spesso surreali (per la brutalità della dialettica israeliana che tira in ballo Dio anche nelle questioni più triviali, e l’appuntamento spesso si trasforma in un dibattito filosofico) o assolutamente esilaranti (come nel caso dello psicologo sordomuto con tanto di interprete del linguaggio dei segni al seguito). E se tutto questo appare un po’ troppo brutale e pragmatico, vale la pena ricordare che il sistema dello speed date è stato inventato dal rabbino Yaacov Deyo dell’Aish HaTorah, per promuovere la conoscenza tra i single di Los Angeles.
Il film ha il merito di prendere svolte inaspettate e di lasciare fino all’ultimo la suspence sul finale, allineando una galleria di personaggi femminili un po’ schematici e funzionali mentre invece quelli maschili appaiono decisamente più sfumati, anche se non troppo reali. Gradualmente tuttavia si trasforma in una wedding comedy dagli accenti sempre più consolatori, mentre sarebbe bastato lasciare il finale aperto nella scena della danza delle donne di casa (una danza di incoraggiamento e di perdono) per conferire tutto un altro spessore alla scelta folle ma coraggiosa di Michal, che è soprattutto abbattere un muro tra sé e l’altro.
Sono reduce da una lettura di un bel libro di Israel Joshua Singer, “la pecora nera”, storia autobiografica che si sviluppa in Polonia a Bilgoraj verso la fine del secolo. Le loro tradizioni, i loro scarti rispetto a queste, la loro ingenuità e presunta innocenza, la loro incredibile vitalità, mi hanno sempre affascinato, anche se come dici tu il film vira verso una wedding comedy, sono comunque molto incuriosito
Bel commento.
Mi permetto in punta di piedi di segnalare alcuni spunti di riflessione. Aggiuntivi, non sostitutivi.
Il primo, è che tutta la religione assume qui le vesti di una tragica follia. Follia in cui il film si immerge e si colloca coi suoi personaggi e, per quanto tenti di diventare una commedia, ha troppa zavorra addosso, e non riesce a capovolgere i significati perché vi è ancora troppo intimamente legata.
Il secondo spunto, che conferma il primo, è che vi sono elementi (involontariamente?) critici che invece scendono giù giù nelle profondità della costruzione psichica, laddove Michal confida che la sua situazione è quella di una “disperata” (vale a dire di un essere eroso dalla paura — un turacciolo nella risacca laddove il mare è simbolicamente proprio ciò che ci segnala Freud). Una disperata “causa sui” che, sulla tomba del Gran Rabbino in Ukraina, confessa a se stessa di essere una inveterata bugiarda, una mentitrice totale.
Il terzo, è che quell’esistenza lì, in Israele, è vissuta come una ossessione. Che opprime la donna e la riporta (come facevi giustamente notare) indietro alle pratiche di affermazione tribale.
Infine, come non vedere nel “buio” da giocatrice di poker che fa Michal, organizzando il proprio matrimonio senza quel marito che Dio — se è giusto e buono — le invierà per tempo, la stesso atteggiamento di Benito Mussolini quando si trasforma da socialista in fascista: saltò sulla scrivania del conferenziere e sfidò Dio, se esisteva, a fulminarlo nei successivi cinque minuti. E li fece scorrere tutti, attendendo a gambe larghe e pugni sulle anche la saetta chiarificatrice.
Michal gli da solo più tempo.
Ma l’energia distruttiva, la smania che le pompa dentro, sembra assolutamente la stessa.