Ho immaginato che il papa fosse Nanni Moretti, che Michel Piccoli non fosse null’altro che un alter ego dell’inadeguatezza del regista, quelle mani dietro la schiena, visibili nel manifesto del film, con una che stringe il polso dell’altra, come se la volesse strozzare (simili agli stretti colletti degli abiti dei preti), mi sono apparse la rivelazione di uno stato di tensione nascosto. Non è forse Moretti il papa dei registi italiani? E se non lo è, lui ci si sente, in qualche misura crede di esserlo. Dev’essere stressante dover sostenere un simile ruolo, tanto che vorrebbe voglia di rinunciare, di tornare ad acquisire di se stessi una dimensione tutta umana, mento proiettata in un orizzonte simbolico, con obblighi e compiti fuori dalla propria portata. Anche il disegno grafico di Habemus Papam rimanda a Moretti stesso, rassomiglia infatti al logo della Sacher (la casa di produzione del regista romano), dove però c’è lui di spalle sulla Vespa e non sta da solo, c’è con lui il figlio. Anche a Cannes Nanni è andato con Pietro, era accanto a lui nella proiezione ufficiale, dove alla fine ha pianto, per poi lasciarsi andare durante la festa data dalla produzione per il film al ballo per l’intera notte. Potrà mai Moretti-regista abbandonare il trono papale e tornare ad essere un Moretti qualunque? Difficile, in genere la fuga prevede un ritorno, non è mai un addio per sempre.
La fantasia che mi sono fatto di immaginare il cardinal Melville (porta il nome del registra francese Jean-Pierre Melville), eletto poi al soglio di Pietro, quale una proiezione di Moretti e della sua inadeguatezza può essere vera (non ci vuole molto a rintracciare nei film dell’autore un forte elemento autobiografico) e in tal caso tuttavia non riesce ad essere convincente come in passato. Questo sentimento di difficoltà o sofferenza rispetto al mondo, che spinge a girare le spalle o quanto meno a nascondere dietro la schiena pesi insostenibili, è già presente in altri suoi film, l’esempio che per certi versi mi sembra più vicino a quest’ultimo è La messa è finita, lì quel prete con le difficoltà che incontrava nell’esercizio della sua missione, riusciva ad esprimere una sofferenza universale e al tempo stesso era il ritratto di un’epoca, in Habemus il risultato si presta a malintesi ed equivoci. Bisogna riconoscere che il progetto è ambizioso e consiste nell’ipotizzare che il conclave nella cappella Sistina elegge un papa, il quale è preso da una crisi di panico al momento della sua proclamazione pubblica (l’urlo di Piccoli è bestiale e ricorda quello del professore di matematica Michele Apicella in Bianca, un grido di sofferenza), ben presto si capisce che si tratta di uno stato depressivo. I cardinali sono costretti a rimanere chiusi in Vaticano e il portavoce della Santa Sede (interpretato da Jerzy Stuhr) convoca un luminare della psicanalisi a risolvere il caso (interpretato dallo stesso Moretti).
A questo punto la trama del film ha una svolta che spiazza. Da una parte lo psicanalista Brezzi resta chiuso in Vaticano con i cardinali, con cui allestisce una serie di intrattenimenti in attesa della guarigione del papa (ma non era stato chiamato per risolvere lui il problema?), dando così uno sviluppo comico alla situazione. Dall’altra il papa è condotto da un’altra professionista dell’inconscio (interpretata da Margherita Buy), fissata col deficit affettivo, con questo stratagemma narrativo l’Uomo-Papa-Melville-Piccoli prende la fuga dalle sue responsabilità, approfondisce la sua crisi e dà corpo a un vero e proprio dramma. Ecco, questo doppio binario drammaturgico lascia perplessi, sembra di assistere a due film in uno, come se ci fosse qualcosa di troppo, in particolare stona la comicità che sembra stare lì senza una vera ragione, come abbiamo già scritto [Habemus Papam – non possiamo fare che scompaio].
Ma c’è anche un’altra questione che rende zoppo Habemus, ed è l’assenza di un vero e proprio rapporto con la fede da parte del papa (sì, c’è una scena in cui va in chiesa e ascolta la predica di un prete ma è poca cosa). Difficile immaginare un cardinale che non espliciti questa dimensione, magari negandola o utilizzandola per altri scopi o essere smarrito per averla persa, per cui facendo appello alla propria fede. Inoltre chi conosce l’abc del cattolicesimo sa che il modello di riferimento per ogni cristiano è Gesù di Nazareth che nel Getzemani accetta la Passione, dice di sì a qualcosa a cui ha avuto la tentazione di dire di no, in un primo momento chiede che gli sia risparmiato il calice di dolore che l’attende, per poi dire “sia fatta non la mia, ma la tua volontà”. Non tutti hanno la medesima forza sia chiaro, non è però comprensibile come questo groviglio di tensioni che inevitabilmente alberga la mente e il cuore di un fedele possa essere eluso.
La replica che lo stesso Moretti dà a questa critica è che lui non è un credente e per cui il suo punto di vista è laico. L’argomento è poco convincente, perché sarebbe come se un pacifista realizza un film di guerra e non mette le armi in mano ai soldati o le divise. Sarebbe credibile? Direi di no. Certo, per Habemus si potrebbe dire che si tratta di un racconto fantastico, dove le regole della verosimiglianza possono non essere rispettate senza danno alcuno, in parte è così, però è altrettanto ovvio che anche le narrazioni di fantasia hanno dei paletti da rispettare per essere convincenti. L’unica giustificazione plausibile sembra essere quella del sogno, della “favola onirica”, in cui ogni personaggio, ogni luogo, non sono altro che una proiezione dell’”Io” del regista, una messa in scena del proprio teatro interiore.
L’inadeguatezza come liberazione da ruoli e riti precostituiti o comunque assunti nel corso del tempo e non sentiti più così attuali, veri, e poi una critica al potere, alla maschera con cui si veste il potere, ai riti che incarna per trasmettere presunte verità e dirigere/risolvere/semplificare le vite degli altri (per questo sceglie la chiesa cattolica, simbolo ancora assoluto del potere, la psicanalisi e anche l’ossessione del controllo stile vecchio Moretti -il fallimento della partita di pallavolo, tutt’altro che un semplice espediente comico, è lì a testimoniarlo). La complessità va vissuta fino in fondo, senza categorie assolute a semplificare né messe in scena dietro cui nascondersi (quella dei preti, ché quella dei teatranti invece con la finzione dichiarata rivela la realtà).
Liberazione da pesi incistiti che apre a nuovi spazi desideranti. Responsabilità nel dire no. E poi credo anch’io che prima o poi ci sarà un ritorno alla costruzione. Non vedo l’ora di vedere che farà nel prossimo film. Moretti è un artista capace di interpetare i tempi e di anticipare il futuro, di aprirsi al nuovo (i temi di Caos Calmo, se visti in relazione all’italia di oggi, a mio parere sono rivoluzionari). E’ un grande. E in questo film più che in altri si è confrontato con la dimensione simbolica. Come fa il grande cinema.
M’hai fatto venire voglia di spiegarmi meglio. magari ci provo.
Molto interessante Marino. Quello che dici è vero, il tema della fede… Credo che sia perché questo in sé a Moretti non interessa, cosi come non gli interessa un realismo coerente. Però è molto affettuoso verso la Chiesa e verso questa figura di Papa il fatto che la fede del Papa non sia affatto in discussione, anzi dalla scena in cui ascolta la predica del pretino a me è sembrato che proprio la fede lo aiuti ad abbandonarsi a Dio, ma per poter rifiutare quanto distante da lui. Ovvero, penso, il senso vero di quella che dovrebbe essere la fede. Capace di essere rivoluzionaria, come lo era quella di Cristo. E come non lo è più oggi.
x alessia: Bartleby di Melville è un personaggio bellissimo e dice sempre “no”. mi sembra un film che traballa pur avendo dei momenti unici e altri così e così. vogliamo dire qualcosa sulla scena bellocchiana a teatro? meglio bellocchio.
x silvia: penso anch’io che abbia uno sguardo affettuoso verso il papa, come anche per i cardinali. non penso che il papa di moretti doveva o non doveva avere la fede, quello che discuto è la costruzione del film. c
Non mi è sembrato un film “zoppo” per i motivi che individua Marino, né mi pare che assumere il punto di vista laico possa diminuire il peso complessivo dell’indagine/riflessione profonda che Moretti svolge sui temi del potere, della rappresentazione del potere, dell’animo e della psiche umani e della loro rappresentazione. Temi che si intrecciano, si sovrappongono, si contaminano e soprattutto, appunto, si rappresentano. Forse è questo lo stimolo maggiore del film; queste rappresentazioni, alleggerite quasi fino ad essere ridicolizzate, di istituzioni che per la loro monumentalità (chiesa e psicoanalisi) e la loro schiacciante e opprimente mole di significati e valori, dimenticano semplicemente l’uomo per quello che è (che le attraversa con fare fanciullesco e le elide in un modo alla fine sconcertante), sono alla fine messe in scena contemporaneamente e dimostrano tutta la loro incompiutezza e la loro tragicità, rappresentata dalle migliaia di volti delusi e addolorati di fronte al “loro” fallimento, non a quello dell’uomo.
Il narcisismo, l’innocenza e la purezza di Moretti, insieme alla sua intelligenza e bravura hanno fatto sì che da quest’insieme di stimoli ne sia nato un Film, vero, bello.
Marino, quello che un po’ mi lascia perplessa è che nella tua analisi non compaia mai la parola “potere”.
Canetti, se ricordo bene, e prendila come una piccola provocazione, in un suo libro ha scritto pressappoco questa cosa: un pensiero veramente libero dal potere è impossibile se si parte dall’idea di Dio.
Enzo hai centrato meglio l’umanità e la tenerezza (Piccoli lo è moltissimo)che il film non solo riflette ma in qualche modo esprime proprio fisicamente, con il corpo di Piccoli e con la massa riunita nella piazza sotto la pioggia.
La fantasia, di vedere Moretti in Piccoli, era stata confermata anche da Nanni nelle dichiarazioni rilasciate sul film. E in effetti, l’inadeguatezza rispetto a un ruolo di alto calibro è una sensazione in cui può ritrovarsi facilmente il regista di grande spessore, come come la persona comune. Quello che mi sentirei di dire è che in realtà la crisi interiore rispetto alla fede è un tema che giustamente non interessava a Moretti, come credo a nessuno degli spettatori dei suoi film. Se si cerca un film sulla fede non si guarda un film di Moretti, credo. E’ un tema inevitabilmennte da affrontare solo perchè si parla di Chiesa? Penso di no, perchè sarebbe stato solo un tema accentratore di polemiche, un ennesimo spunto di critica per anti morettiani. Il tema cruciale sarebbe stato se il fim fosse stato religiosamente corretto o no. La genialità è stata proprio quella di non prestare il fianco alle critiche da bar, su come un regista di sinistra dipinga il Vaticano(seppure opinioni molto riduttive su Il Giornale, come in altre critiche cinematografiche hanno goffamente spostato l’asse del discorso sul piano etico morale). Il piano del discorso è sul ruolo del potere, sulle paure dell’uomo, sulla vita terrena, tra la gente, qui e ora, per le strade di Roma. Nessuna allusione all’altrove o all’aldilà. Il doppio binario drammaturgico, più che perplimere si fa metafora della complessità dell’animo umano: la contrapposizione tra dentro e fuori, gabbia dorata e confortevole dta dall’intimità dei chiostri dalle stanze di palazzovs vs il caotico canto delle sirene della città: vivacità delle piazze e le osterie. Todo cambia.
non credo si tratti di una film sul potere, qualsiasi declinazione si voglia dare a questo concetto, per me – tra l’altro – non ha una accezione negativa o positiva. ci sono alcune scene che rimandano a un discorso sul potere, legato all’immagine, quindi anche al cinema. come quella della guardia svizzera dietro le finestre o il finale con il papa che si ritira. belle intuizioni ma lasciate lì. inoltre sarebbe illusorio e ingenuo pensare che il quotidiano non sia condizionato, quindi migliore delle stanze del potere, forse è vero il contrario. chi ha più potere sta meglio. io i film li guardo per quello che sono, non mi interessa che il regista abbia o meno la fede, né mi aspetto che la debba avere. ritengo però che un personaggio-cardinale-papa la debba avere e se non ce l’ha mi venga detto perché. chiedo troppo?
Marins, leggi bene i commenti di Silvia, Chiara e anche di Enzo, secondo me lì c‘è la risposta al perchè che cerchi.
Il film è simbolico e a tratti surreale, il realismo del “chi ha il potere sta meglio” sarebbe stato corretto in un altro tipo di film, Moretti non è mai stato artista cinico o senza speranza, perchè chiederglielo ora? Scusa ma dire che non è un film sul poetere a me sembra francamente una rimozione.
A me sembra che l’immagine del balcone vuoto sia efficace per il disorientamento dei nostri tempi e dei poteri sempre più vuoti che ci diamo. Quello che non mi convince nel film non è tanto la mancanza di fede del papa quanto la pochezza della messa in scena e la ripetitività delle macchiette morettiane nel lato comico del film, quello dello psicanalista. Inutile mi è parsa anche la scena con la Buy. Anche la scena del teatro funziona a metà.
caro giovanni, come più volte scritto la questione non è che il papa deve per forza avere la fede, può averla o meno o può essere depresso, può essere qualsiasi cosa, poteva essere un comunista-ateo che aveva sempre nascosto la propria identità e una volta raggiunto il soglio papale predicava una sorta di marxismo evangelico. insomma quello che te pare, ma ognuna di queste scelte narrativa ha delle conseguenze nel racconto di una storia. non mi pare che queste “conseguenze” siano state prese in considerazione.
Sostanzialmente concordo, hai evidenziato un altra debolezza del film alla quale avevo fatto meno caso, intrigato com’ero dall’interpretazione di Piccoli.
D’accordo con C., non potevamo aspettarci un film su una crisi mistica, da buon marxista (anche se dissimulatore) NM si è sempre interessato alle strutture del discorso. Ecco, potrebbe essere un film sull’incapacità del potere a dire la sua (ma il discorso del re, nella sua semplicità rendeva meglio l’idea).
Mi piace pensare che HP invece risponda a un’altra doppia domanda: cosa succede a un’istituzione – religiosa, in questo caso, ma soprattutto il max dell’autorevolezza in terra – in mancanza del padre? (o del Padre?)
E simmetricamente, cosa succede a una struttura culturale (l’approdo terminale del positivismo – il max dell’autorevolezza per una struttura culturale) come la psicanalisi in mancanza del paziente (il papa che fugge)?
Ebbene, succede che il rito si trasforma in procedura, e cardinali in uomini persino troppo umani. Pronti ad accapigliarsi per una partita a carte, adusi agli psicofarmaci, buoni solo a ingannare il tempo. E’ questo il destino della chiesa privata del suo leader (carismatico, si direbbe oggi). Aveva provato a descrivere una china simile Ugo Morselli nel suo “Roma senza papa” da cui sicuramente NM (o i suoi scenegg) hanno attinto, e di cui incredbilm non si è mai parlato.
Simmetricamente la psicanalasi (senza il paziente/papa) gira a vuoto e non trova di meglio da fare che costruire strutture assurde e conchiuse come il girone all’italiana del torneo di pallavolo.
Probabilmente aggiungo, l’insuccesso di un film che provava a fare grande cinema (d’accrdo con A.) – ricostruendo la facciata di San Pietro e rischiando di mandare all’aria la fandango e mezza filiera produttiva italiana (e in questo ricorda la dolce vita di Fellini) – oltre alla troppa carne al fuoco non sviluppata (d’accordo con M.) – è in un localismo troppo spinto (certa Roma vaticana) nella perdita della dimensione profetica (vedi Palombella rossa) e forse nella ricerca fuori tempo, oltre la chiesa e il pensiero positivo, di una terza via