[***12] – Il sipario di Cesare deve morire si apre con un piano fisso sul palcoscenico di un teatro. Il fondo della scena è dominato da una serie di colonne doriche rosso acceso, lo spazio antistante è occupato da un gruppo di soldati a torso nudo armati di spade, la tensione del momento è sottolineata dal rullo di un tamburo. In primo piano spicca il volto angosciato di un uomo: è Bruto l’assassino di Cesare che implora uno ad uno i suoi compagni di dargli la morte, l’ultimo di loro accetterà.
Questo è l’atto finale del Giulio Cesare di Shakespeare; uno scroscio di applausi si leva dal pubblico, gli attori si inchinano commossi ma, solo qualche minuto dopo, il palcoscenico viene svuotato con un’urgenza senza mezzi termini. Cut. Il colore scompare e gli attori si ritrovano di nuovo immersi nel loro mondo, ritratto rigorosamente in bianco e nero per tutto il resto della pellicola: ci troviamo nella sezione di alta sicurezza del carcere di Rebibbia di Roma.
Paolo e Vittorio Taviani scelgono per questo loro viaggio teatrale, curiosamente astratto e lievemente distanziato nell’universo carcerale, una struttura circolare. La prima scena del film rappresenta la conclusione del processo di preparazione dello spettacolo che ci verrà descritto nel corso della pellicola; la stessa scena verrà ripresa alla fine del film con un breve ritorno al colore e -di fatto- ad una rappresentazione documentaria della realtà.
Com’è noto la pratica dei workshop teatrali è alquanto diffusa nel quadro dei programmi di sostegno ai detenuti; è stato proprio assistendo ad una rappresentazione teatrale dell’Inferno di Dante organizzata nel carcere di Rebibbia da Fabio Cavalli, direttore del Centro Studi Enrico Maria Salerno, che i fratelli Taviani hanno deciso d’intraprendere questa avventura.
Contando sul suo aiuto e sulla sua complicità – lui stesso diventa un personaggio nel film – i due registi costruiscono uno scenario immaginario che ben presto coinvolge l’insieme dei luoghi.
Per la sua trama basata su lealtà e tradimento, intrighi e lotte di potere nonché per il ricorrere del concetto chiave ‘uomo d’onore’ la pièce shakespeariana Giulio Cesare è parsa ai fratelli Taviani come un luogo d’identificazione ideale per i detenuti-attori di Rebibbia. Il testo originale viene decostruito per essere rimodellato in tutta libertà aprendosi con generosità alla parlata propria di ogni interprete ed adattandosi alle sue inflessioni dialettali; ne risulta una miscela possente in cui il siciliano si incontra con il romano, il calabrese, il pugliese ed il napoletano in tutta naturalezza.
“ Nel corso degli anni Shakespeare è stato per noi dapprima un padre, poi un fratello ed infine, man mano che siamo andati invecchiando, è diventato un figlio; ci siamo così presi la libertà di smembrare il suo Giulio Cesare e di ricostruirlo a modo nostro!” hanno spiegato i registi.
Girare in una prigione con dei detenuti non è un’impresa anodina; il luogo e la sua specificità sollevano una serie di questioni etiche e di decisioni relative all’impostazione della messa in scena. La relazione fra realtà e finzione diventa in questo contesto d’importanza capitale; cosa e quanto si vuole mostrare del quotidiano, della vita, dei sentimenti e dei pensieri degli abitanti del luogo, del loro passato e soprattutto delle loro prospettive future? Molti di loro scontano infatti delle lunghe pene ed alcuni dovranno restarvi fino alla fine dei loro giorni.
Ben presto ci si rende conto che i fratelli Taviani non seguiranno la via di un realismo di stampo documentario, come questo tipo di progetto avrebbe lasciato supporre, ma sceglieranno il cammino dell’immaginario. Scabre, bellissime composizioni d’insieme sfruttano la geometria dello spazio per trasformarla in uno scenario suggestivo; cortili e patii interni, ripresi talvolta dall’alto, compongono la geografia fantastica del foro romano, le grida dei detenuti dalle finestre delle loro celle ricreano con forza la furia del popolo. Il bianco e nero esalta la dimensione anti-naturalistica ed atemporale della raffigurazione, la colonna sonora composta da Giuliano Taviani e Carmelo Travia carica con la sua cadenza ritmica e le sue tonalità aspre l’accadere di tensione drammatica.
Le diverse tappe del processo creativo, dal casting fino alla recita finale nel teatro di Rebibbia, blandamente seguite nel loro ordine cronologico, fluiscono in un insieme senza soluzione di continuità ricalcando a grandi tratti la trama della tragedia. Il testo stesso di Shakespeare diventa un pre-testo; gli attori si cimentano in una ‘prova’ ininterrotta che si trasforma immediatamente in rappresentazione; brandelli di realtà affiorano a tratti per venire subito assimilati nel flusso della narrazione poetica.
Le poche scene d’intimità di questi uomini; i momenti che trascorrono in cella o quelli in cui s’impegnano a ripetere le loro battute con l’aiuto di un compagno sono rigorosamente scritte sul copione. Da esseri in carne ed ossa gli attori-detenuti diventano personaggi di una doppia finzione; quella della rappresentazione teatrale e quella della fiction cinematografica. I fratelli Taviani optano per un rapporto marcato da un pudore distante e distaccato; il loro affetto per queste persone – di cui si percepisce l’intensità ogniqualvolta i due artisti ne parlano a voce – non arriva ad impregnare di calore umano il film.
Uno dei momenti più forti ed autentici di Cesare deve morire, forse perchè maggiormente ancorato in una ripresa documentaria del reale, è quello del casting. In una sequenza che ricorda molto il dispositivo messo in scena dal regista iraniano Mohsen Makhmalbaf in Salaam Cinema viene chiesto agli aspiranti attori di presentarsi con nome, cognome ed indirizzo come se fossero interrogati ad un posto di frontiera. Una prima volta devono farlo dicendo addio a qualcuno che amano e da cui sono costretti a separasi, la seconda volta invece devono farlo mostrando rabbia. Fra gesti, espressioni del volto, parole, grida, pianti e risa i futuri attori lasciano qui trasparire tutta la loro più toccante umanità.
Il talento innato, la forza espressiva e la spontaneità di cui fa prova il cast del film sono degni di nota; Salvatore Striano ci trascina con ardore febbrile negli abissi dell’anima tormentata di Bruto, Giovanni Arcuri, con la sua presenza imponente ed il suo fare borioso sa dare pienamente corpo alla figura di Cesare, Cosimo Rega riesce a trasmetterci con grande naturalezza l’eloquenza scaltra e manipolatrice del personaggio di Cassio. L’insieme della troupe è compatto e possente in tutte le sequenze puramente teatrali, nelle rare scene di raccoglimento e d’introspezione del film gli attori stentano invece a trovare dei toni più pacati.
Forse è proprio lo iato fra l’umanità dolente dei suoi interpreti che s’intuisce, ma resta intangibile e la foga veemente delle loro performance che conferisce a Cesare deve morire il suo fascino peculiare, lontano da clichè e sentieri battuti.
La frase di uno dei protagonisti del film che Vittorio Taviani ha scelto di citare nel suo discorso di ringraziamento per l’Orso d’Oro sul palcoscenico del Berlinale Palast rispecchia pienamente la visione di questi due artisti che hanno consacrato tutta la loro vita al cinema:
« Da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione ! ».