Titolo e sottotiolo del film ondeggiano tra orrore e mistero, ma Cover boy è il film di un ragazzo che ha il coraggio di mettere nuovamente in copertina i “panni sporchi” della società, della precarietà del vivere e del lavorare. Tanto semplice è la logica delle rivoluzioni. Carmine Amoroso è il regista-cover boy che racconta le difficoltà materiali del quotidiano, narrate “alla larga” da ogni esistenzialismo e da ogni individualismo. La storia di Ioan e Michele parla di confini, di barriere, di tolleranze. Cita velatamente Roma città aperta, Umberto D., Stazione Termini, ma all’atmosfera vagamente neorealista aggiunge dei lampi di attualità, di contemporaneità: mormora qualcosa sul tema dell’omosessualità, sussurra qualcos’altro sull’elemosina che le minoranze chiedono allo Spirito Santo.
Amoroso ha vissuto due anni in Romania e bene fa a mettere in scena l’intima complicità di mondi che si vorrebbe far credere in guerra per il pane. Tornato in Italia, osa portare per le strade la macchina da presa senza set, senza tir Tranquilli & Carocci, senza luci aggiuntive; e vi riesce con ottimi risultati grazie alla tecnologia dell’HDV. Osa guardare in posti dove è impossibile portare lo sguardo di tutti i giorni come i sotterranei della stazione Termini, monumenti sommersi al lavoro nero. Osa inquadrare ancora quel tratto di Casilina con la chiesa di Sant’Elena sconsacrata qualche milione di precari orsono da Rossellini. La strada è la stessa, ma l’inquadratura è in controcampo: questo è il neorealismo di tutti e di nessuno, consumato in solitudine davanti alle televisioni.
La sceneggiatura talvolta divaga oltre misura, ma la struttura rende bene almeno due concetti: la “R” di Roma diventa rotaia e la “M” di Milano diventa moda. In questo, Amoroso si mostra fin troppo categorico: le immagini del digitale scartano nettamente dalla povertà dei giacigli all’addiaccio di Roma alla ricchezza barocca delle sfilate milanesi. Descrizioni di luoghi comuni che non rendono sufficiente giustizia alle realtà delle due metropoli almeno da quando il vezzo della moda ha contagiato anche Roma. Un film sincero che esce in sala ad oltre due anni dalla fine delle riprese, ma che, proprio per questo risultato, lascia sperare in una ventata di sincerità nelle immagini del cinema italiano. Un film che non cerca né il compiacimento del pubblico, né quello del regista; che non offre il fianco né ai “reportage” sulla star di turno, né alle ricognizioni autoriali dei cinephile. Un film, crediamo, che molti sarebbero interessati a vedere, ma che, ne siamo certi, pochi riusciranno a farlo.