Dico Marsiglia e ti viene già la malinconia, come se la città ti fosse familiare pur non avendoci mai vissuto. E’ possibile che tu abbia letto un romanzo di Jean-Claude Izzo (ma se ne hai letto uno è probabile che tu abbia divorato anche tutti gli altri), oppure devi aver visto uno dei primi film di Guédiguian come Marius et Jeanette o La ville est tranquille. Magari ti faceva impazzire il rap multietnico dei Massilia Sound System. O forse più semplicemente sei capitato per sbaglio a Marsiglia, l’hai attraversata quel tanto che basta per riprendere la tangenziale e allontanartene al più presto verso la tua destinazione di villeggiatura in Costa Azzurra o in Provenza.
E sì, perché Marsiglia e i suoi dintorni – ti informano quelli che la sanno lunga, quelli che hanno viaggiato – è pericolosa, peggio, è un vero inferno. Intere zone sono ostaggio delle scorribande di derelitti pronti a tutto pur di avere il tuo portafogli, i tuoi gioielli, il tuo cellulare nuovo di zecca. Eppure, se il destino ti ha fatto sopraggiungere in città, è probabile che la sua luce bianca che avvolge tutto, l’azzurro del suo Mediterraneo con i pescherecci fermi al largo, i suoi vicoli tra vecchi edifici bianchi e cadenti e i gradini di pietra che si inerpicano ripidi, il suo popolo pieno di dignità e di calore, le sue donne dai grandi occhi scuri è orgogliosi, è probabile che tutto questo abbia lasciato un segno indelebile nel flusso frettoloso dei tuoi ricordi di viaggiatore distratto. E a Sète, in una località non lontana da questa città dall’odore di basilico e di mare, dove i colori del mediterraneo la fanno da padroni, il regista, tunisino d’origine, Abdellatif Kechiche ha deciso di ambientare la sua ultima opera La Graine et le mulet, che sta per il chicco del couscous e il pesce, richiamo a una specialità culinaria semplice quanto prelibata della comunità franco-araba che abita la zona intorno al vecchio porto (il titolo in italiano è stato tradotto con: Cous Cous).
Kechiche, che ha vissuto sulla sua pelle il dramma dello sradicamento e le difficoltà dell’integrazione, non è nuovo all’osservazione partecipe e penetrante del fenomeno immigrazione. Se nel film precedente, L’Esquive (La schivata), l’attenzione si focalizzava sulle difficoltà e sui sogni di riscatto di un gruppo di adolescenti, figli di immigrati e di proletari francesi abitanti la bollente banlieu parigina, qui ci spostiamo nel mezzogiorno d’Europa e approdiamo sulle rive di quel Mediterraneo dall’enorme impatto simbolico: un mare per eccellenza culla-di-civiltà che accomuna tradizioni culturali e genti diverse, talvolta drasticamente antagoniste, conducendo nei suoi porti millenari una moltitudine di genti, mercanzie e, non ultime, navi da guerra per vecchie e nuove crociate. E proprio nell’orbita di attrazione del porto, vive e lavora Slimane, 61 anni portati così così, 35 dei quali passati a sgobbare ai cantieri navali e ora la minaccia di un licenziamento per scarsa produttività. Certo il lavoro diventa sempre più faticoso con il passare degli anni e l’età si fa sentire, ma la verità è che l’intero settore sta attraversando una crisi strutturale, con il conseguente spettro della de-localizzazione continuamente agitato dalla proprietà. Il ferro proveniente dalle navi smantellate viene mandato ai forni in Turchia. – “In Francia abbiamo perso i fiammiferi oppure è un problema di costo della manodopera” – spiega in apertura il figlio di Slimane ai turisti a bordo di un battello. Seguiamo Slimane nel suo solito girovagare per la città mentre porta il pesce fresco che gli amici pescatori gli hanno procurato, alle persone a lui care: la sua famiglia, composta dall’ex moglie con i suoi figli e figlie e le rispettive famiglie, e Latifa, l’albergatrice della piccola pensione in cui è andato ad abitare e con la quale intrattiene una relazione. Slimane è uomo generoso e taciturno, ma intorno a lui è tutto un vorticoso flusso di parole. Durante il pranzo domenicale, familiari e amici parlano all’unisono accavallandosi, in un botta e risposta ritmato e colorito in cui arabo e francese si fondono in un lemma comune.
Il regista, in una lunga sequenza memorabile quasi in tempo reale, restituisce a meraviglia l’atmosfera festosa e vociante, le urla dei bambini, il calore del ritrovo familiare e i sotterranei dissidi tra coniugi e parenti. Chiunque sia originario di famiglie appartenenti a qualche meridione del mondo capirà di cosa sto parlando. La macchina da presa, mobilissima e frenetica, marca a uomo, si incolla a un volto in primo piano indugiando su un atteggiamento, poi ci ripensa e compie uno scatto; piani sequenza nervosi si alternano a sequenze di montaggio stretto. La sensazione dello spettatore è quella di ritrovarsi in famiglia, di partecipare al pranzo in compagnia di tutti gli altri gustando quel couscous delizioso. Quello di Kechiche non è un cinema d'azione ma di parole in azione, in velocità, come sventagliate di mitra. Non assistiamo mai direttamente ai momenti determinanti della vicenda, ma questi ci vengono puntualmente raccontati, commentati dai personaggi in un flusso ininterrotto di scambi verbali, speculazioni, come nel gioco del telefono senza fili. Tuttavia la chiacchiera, il pettegolezzo non sono mai fini a sé stessi, diventano anzi cifra espressiva predominante e svelano le correnti più sotterraneee che muovono i comportamenti dei personaggi e ne determinano le scelte. In particolare, nei film di Kechiche, sono soprattutto le donne a essere le portatrici del dono e della maledizione del linguaggio. Loro, le donne, pare voler suggerire il regista, sono la vera forza motrice delle storie e della Storia, mentre i loro uomini nel migliore dei casi nicchiano, si lasciano trasportare, quando proprio non combinano guai grossi. Veniamo così a conoscenza già a cose fatte della decisione di Slimane, d’intesa con la bella e intraprendente Rym, giovane figlia di Latifa, del tentativo di mettersi in proprio. L’idea è quella di ristrutturare un vecchio relitto di nave per trasformarlo in un ristorante di pesce e couscous, avvalendosi del talento culinario dell’ex moglie e della collaborazione di tutta la famiglia in modo da abbattere i costi del personale. Una scommessa di chi non ha più nulla da perdere, quel voler diventare imprenditori di sé stessi, riciclandosi in un mondo del lavoro dove non esistono più misure intermedie – o sei schiavo oppure padrone – che sembra essere rimasta l’ultima utopia residua di una classe operaia allo sbando.
Come la Angie, protagonista di In questo mondo libero di Loach, anche Slimane si illude di potere ancora prendere in mano le redini della propria esistenza. Ciò nonostante, per iniziare ci vogliono ingenti capitali, per non parlare di licenze, autorizzazioni, polizze assicurative. Ma contrariamente alle ragazze nel film di Loach, che si ponevano da subito piratescamente down-by-law, non facendosi scrupolo di arruolare al nero immigrati clandestini, Slimane e Rym scelgono senza esitazione la via pulita: buttano gi&ugr
ave; una bozza del progetto e iniziano un’estenuante trafila burocratica, tra richieste di mutui ipotecari, licenze doganali, autorizzazioni sanitarie, trovando dappertutto poco più che una cortese diffidenza. La realtà e che sono pur sempre arabi, anche se cittadini francesi a tutti gli effetti, squattrinati per giunta, e seppure nessuno dei funzionari a cui si rivolgono palesa atteggiamenti apertamente razzisti, non è difficile intuire che la loro pratica potrebbe rimanere sepolta sotto la polvere di qualche scaffale. Senza ancora nessuna garanzia di vedere approvato il loro progetto, il testardo e orgoglioso Slimane e la sua famiglia, dopo aver lavorato duro per rimettere in sesto l’imbarcazione, decidono di inaugurare il ristorante con una cena alla quale invitano tutta la città, compresi i facoltosi che dovranno decidere sul loro destino. Gli amici suoneranno musica tradizionale o daranno una mano in un modo o nell’altro. Intanto che la macchina organizzativa parte a pieno regime, difficoltà di relazione e conflitti nascosti affioreranno in superficie. Rinunciando a svelare i successivi sviluppi della trama, ci limiteremo soltanto a notare che da questo punto in poi il film prende una strada differente, l’efficace e originale appeal documentaristico, quasi cine-verité, cede il passo a una messa in scena più convenzionale, evidentemente costruita, indebolendo forse la coerenza di un impianto stilistico e narrativo che non perde comunque nel complesso un forte impatto di realismo e rivela una maestria nell’uso dei mezzi espressivi pienamente compiuta. Una menzione davvero molto speciale all’interpretazione intensa e sensualissima di Hafsia Herzi nella parte di Rym.
capisco molto bene quel clima familiare mediterraneo di cui parli e ben rappresentato da kechiche. la seconda parte che tu chiami “convenzionale” la reputo un peccato veniale. aggiungo che il film è un ottimo strumento di mediazione culturale. mi sembra interessante quella sorta di comparazione che fa fra il malocchio e l’hazard (il caso).