Maria Giovanna Vagenas ha incontrato, in esclusiva per Schermaglie, Jacky Evrard, direttore artistico del Côté Court, festival del cortometraggio che si svolge dal 15 al 26 giugno a Seine Saint Denis.
Côté court, festival dedicato al cortometraggio, festeggia quest’anno il suo ventesimo anniversario; una data cruciale che riflette l’importanza di questa manifestazione nel mondo cinematografico e culturale francese. Puntando i suoi riflettori su quel nucleo di creatività allo stato puro che sono le forme brevi Côté court si è imposto, nel corso del tempo, come un autentico vivaio di giovani talenti, uno spazio d’incontro e di scambio ed un importante luogo d’azione culturale in un territorio tanto sensibile quanto spesso trascurato com’è quello della periferia nord di Parigi. Con le sue sezioni competitive orientate verso la produzione francese Côté Court ha offerto uno spazio di esposizione privilegiato a ben due generazioni di artisti. Molti fra i registi francesi più interessanti della nuova leva come François Ozon, i fratelli Larrieux, Alain Giraudie, Serge Bozon, Laetitia Masson, Philippe Ramos, Erik Zonka e Laurent Cantet, vi hanno compiuto i loro primi passi. Il successo di Côté Court si misura anche dalla grande affluenza del pubblico, un pubblico molto giovane che rende intensa e vivace l’atmosfera del festival. Organizzatore coraggioso, appassionato e visionario di quest’evento e tutt’ora direttore della manifestazione, Jacky Évrard ha sempre saputo, grazie alla sua spiccata sensibilità artistica, proporre una programmazione audace, poliedrica e al passo coi tempi. Ho incontrato Jacky Évrard due giorni prima dell’inaugurazione del festival; un’occasione preziosa per parlare dei tempi forti dell’edizione 2011, fare il punto sui vent’anni di Côté court ed avviare una discussione sullo stato del cortometraggio nel panorama dell’audiovisivo di oggi.
Quest’anno Côté court festeggia i suoi vent’anni, cosa significa questa data per lei?
Considerato che accompagno questa manifestazione sin dall’inizio, per me il fatto di arrivare alla ventesima edizione ha un qualcosa di leggermente sorprendente. Quando penso agli inizi del festival ed ai suoi primi anni mi sembra ieri, ma non posso fare a meno di constatare che, nel frattempo, io stesso ho vent’anni di più, e che molte cose sono cambiate nel mondo del cinema ed in quello del cortometraggio. Parlando di cambiamenti mi riferisco, fra le altre cose, all’avvento del digitale; un fatto importante non solo perché ha significato una vera e propria rivoluzione tecnica e tecnologica, ma soprattutto perché ha permesso una liberalizzazione ed una democratizzazione della creazione audiovisiva. Le nuove generazioni di registi non provengono più esclusivamente dal mondo della cinefilia, ma arrivano ormai dagli orizzonti più svariati e da altre discipline artistiche come la danza, il teatro o le arti plastiche; questa pluralità ha creato delle nuove forme di scrittura cinematografica e delle modalità inedite di narrazione. Guardando indietro nel tempo direi che c’è stata, negli anni Novanta, una fase intermedia, in cui, in seguito ai finanziamenti offerti dalle Regioni e dallo Stato e basati su un progetto scritto, abbiamo assistito ad una eccessiva standardizzazione dei film che ne ha limitato considerevolmente la libertà creativa. Oggi invece un corto può essere realizzato in un tutt’altro tipo di economia, può essere auto-prodotto, e ciò permette spesso dei risultati estetici sorprendenti.
Quali sono gli eventi di spicco di questa ventesima edizione di Côté court?
Volevo assolutamente evitare di cadere nella trappola della “celebrazione”; al contrario mi sembrava importante connettere il festival con quanto c’è di più attuale nel mondo del cinema. Nondimeno, in un’ottica in ogni caso non commemorativa, abbiamo organizzato un’ampia retrospettiva divisa in venti programmi, che permette al pubblico di rivisitare le edizioni precedenti del festival attraverso le opere di una serie di cineasti, oggi molto noti, che hanno presentato i loro primissimi lavori a Côté court come François Ozon, Alain Giraudie, Laurent Cantet, i Fratelli Larrieux o ancora Serge Bozon. Un altro programma importante dell’edizione 2011 è Dix fois deux; dieci serate organizzate per esaltare la trasversalità che esiste fra il cinema e le altre discipline artistiche come la danza, il teatro, le arti figurative, la fotografia o la musica. La formula Dix fois deux prevede ogni sera l’intervento di due ospiti: uno fornisce le immagini – provenienti dagli orizzonti più diversi – ed il secondo le “lavora” ricorrendo a un’altra disciplina artistica. Nell’ambito di queste serate avremo il piacere di ospitare Xavier Veilhan, artista e scultore di fama internazionale, che ci mostrerà l’insieme delle sue opere in video con l’accompagnamento musicale di Christophe Chassol. Fra i nostri invitati ci sarà anche Jeanne Balibar – attrice rinomata, ma anche cantante e donna di teatro- che ci presenterà un lavoro molto originale dal titolo Théatre à emporter. Si tratta di una serie di opere teatrali lette e filmate in luoghi insoliti. Avremo così occasione di assistere ad uno spettacolo ispirato all’Elettra, composto da una parte proiettata sullo schermo e una recitata dal vivo e accompagnata da un gruppo di musicisti. Oltre a Jeanne Balibar saranno presenti in scena Emanuelle Béard, Edith Scob, Piere Léon e Yves-Nöel Genod. Bernard Plossu, fotografo di fama mondiale e grande cinefilo, proietterà tre corti realizzati negli anni Sessanta in super 8: il primo, girato a Parigi, è un ritratto poetico di Michelle, la sua giovane compagna dell’epoca, gli altri due sono stati filmati in Messico e a San Francisco dove Plossu ha colto con la sua cinepresa gli albori del movimento hippie. Questi film rappresentano una testimonianza preziosa dell’epoca, vista attraverso lo sguardo straordinario di un grande fotografo. Avremo come ospite, inoltre, Lee Ranaldo, chitarrista del gruppo mitico dei Sonic Youth, con una performance musicale accompagnata da un video di Lea Singer e infine Vincent Dieutre e Gilles Collard, che daranno vita a una performance tratta dal libro 07/09×2.
Grande attrazione del festival è esercitata dalla competizione, potrebbe parlarmene?
Côté court ha due sezioni competitive: una sezione dedicata ai film di finzione e un’altra al cinema sperimentale, il saggio visivo e la video-arte. Di fatto tutte queste forme hanno, al giorno d’oggi, la tendenza a contaminarsi; questa tendenza è molto evidente nei corti, ma la ritroviamo sempre più spesso anche nel lungometraggio, basti pensare ad un lavoro come quello di Apitchatpong Weerasethakul, che lascia chiaramente trasparire all’interno di un’opera al cento per cento cinematografica l’universo delle arti plastiche caro al regista.
Il cortometraggio è visto da molti giovani registi semplicemente come una sorta di trampolino per passare al lungometraggio. Personalmente ritengo che il corto sia nel cinema un po’ quello che i
n letteratura è la novella rispetto al romanzo. A tal proposito qual è il suo punto di vista?
É innegabile, il cortometraggio soffre di questo pregiudizio. Per molti il corto non è altro che un banco di prova, una semplice carta da visita, un passaggio obbligato per andare verso il lungometraggio. Proprio per questa ragione preferisco utilizzare i termini “forma corta” o “film corto” che non riducono il significato della parola alla sua semplice durata. Ridurre un film alla sua sola durata significa non capire che ogni film è un’opera in sé; quando Jean Eustache ha girato La maman et la putain, ha fatto un film di tre ore e quaranta minuti perché quello che aveva da dire richiedeva questo lasso di tempo. Une sale histoire – un film che secondo me ha segnato in maniera indelebile la storia del cinema – dura invece quaranta minuti divisi in due parti, semplicemente perché questa era la sua giusta misura. Un chant d’amour di Jean Genet, un’opera, a mio avviso, d’importanza capitale nella storia del cinema, dura solo venticinque minuti. Proprio queste sono le ragioni che ci hanno spinto a creare Côté court; volevamo mettere la parola fine, una volte per tutte, al pregiudizio secondo cui i film corti non sono altro che dei piccoli film fatti di ritagli, dei semplici pretesti, dei passaggi obbligati. Tutto questo per dimostrare che, al contrario, vi si possono trovare delle autentiche opere d’arte. Alcuni fra i giovani registi francesi di cui parlavo all’inizio sono riusciti a dare il meglio di se stessi proprio nei corti per il semplice fatto che la forma del corto, essendo libera da tutta una serie di condizioni imposte dalla produzione, ha permesso loro di esprimere la propria creatività senza limiti. Lo spazio cinematografico in cui vive il film corto è uno spazio di totale libertà in cui si possono sperimentare delle forme di narrazione e di scrittura nuove, in cui si possono mischiare allegramente la finzione, il cinema sperimentale e gli apporti provenienti da tutte le altre discipline artistiche.
A mio avviso, il mondo dei festival – mi riferisco alle manifestazioni più importanti del settore che ruotano tradizionalmente intorno al lungometraggio – sembra essere ben cosciente della forza e dell’importanza del cortometraggio tanto da incominciare a rivendicarlo e ad appropriarsene. Penso, ad esempio, alla Mostra del cinema di Venezia, che ha riorganizzato la sezione Orizzonti aprendola proprio ai corti. In questo paesaggio festivaliero così ricco e complesso qual è la specificità e quale il posizionamento di Côté court?
Côté court è in primo luogo, come indica il nome stesso, un festival esclusivamente dedicato ai corti; il che non vuole dire che occasionalmente, come nel caso della retrospettiva dedicata a Jonas Mekkas, il festival non possa ospitare dei lungometraggi che compongono la filmografia di un artista. La specificità di Côté court consiste nel suo essere un punto di snodo tra diverse pratiche artistiche; non è un festival dedicato solo al cinema di finzione, ma accoglie ugualmente la video-arte, il cinema sperimentale, il saggio visivo e un certo tipo di cinema documentario. Ciò che m’interessa in primo luogo è la relazione che il cinema può stabilire con il resto delle forme artistiche; penso che questo sia uno scambio estremamente fruttuoso sia per il cinema che per le altre arti.
La qualità di una programmazione consiste nel riuscire a discernere, fra una quantità enorme di materiale da visionare, quanto c’è di più innovativo e rilevante, è d’accordo?
Non bisogna mai restare fermi su delle cose acquisite: un festival come Côté court prova che il cinema è un’arte in movimento, che si nutre di tutto ciò che le sta intorno. Il ruolo di un festival è quello di essere sempre in agguato per percepire i movimenti tettonici che agitano il cinema, che lo fanno andare avanti, come un magma, un qualcosa che respira.
Il problema maggiore con il quale si trova a dover combattare il corto è piuttosto la visibilità, la distribuzione. Qual è il suo spazio oggi e quale potrebbe esserlo nel futuro?
La distribuzione del corto è un autentico problema; in un passato, ormai lontano, i corti erano proiettati in sala prima di ogni lungometraggio poi, negli anni Settanta, sono scomparsi definitivamente dai cinema. Oggi in Francia i corti si possono vedere soprattutto alla televisione su TF2, TF3, Canal Plus, Arte ed, ultimamente, su alcuni canali della televisione via cavo, ma vengono sempre programmati di notte; per vederli bisogna essere particolarmente motivati o soffrire d’insonnia. In fin dei conti i corti sono principalmente visibili nel circuito dei festival; quelli che presentiamo qui a Pantin, data la loro trasversalità, trovano spesso un loro spazio di esposizione anche nell’ambito delle gallerie d’arte e dei musei. Raramente hanno una distribuzione tradizionale: quando escono in sala ciò avviene soprattutto grazie a dei collettivi culturali impegnati nella loro diffusione come, per esempio, il gruppo Peuple qui manque. Il successo di Côté court consiste proprio nel presentare questo tipo di film. Il pubblico che frequenta il festival è molto giovane, e per me questo è un fatto molto incoraggiante perché significa che ama scoprirle su un grande schermo. Il corto circola un po’ anche su internet ma, a mio avviso, questo non è sempre il modo migliore per vedere delle immagini. Penso che i cinema indipendenti di Arte ed Essai, che saranno presto in grado di proiettare in digitale, dovrebbero assumersi il compito di programmare questo tipo di film ‘fuori circuito’ senza avere bisogno di una distribuzione di tipo tradizionale. Noi abbiamo iniziato a fare questo tipo di programmazione qui al Cinema 104 di Pantin in periodi diversi da quello del festival, dedicando al corto una sessione mensile dal titolo Ecran libre, che speriamo di potere ampliare molto presto.
Guardando al futuro cosa si augura per Côté court?
Tra una ventina d’anni non penso che sarò ancora io ad occuparmi di questo festival (ride) ma vorrei che Côté court continuasse ad esistere il più a lungo possibile, restando fedele alla sua identità, quella cioé di essere un luogo di ricerca e di scoperta, che mira a rivelare delle forme nuove e dei giovani cineasti, senza perdere la sua dimensione conviviale: un luogo che favorisce l’incontro del pubblico con gli artisti e degli artisti fra di loro. Per me questo momento d’incontro è essenziale per tutti perché le cose si fanno solo dove c’è uno scambio e senza scambio, non c’è vita.