“Appropinquante fine mundi urla un pazzo per la strada…..e noi aggrappati ad un cellulare ci mandiamo messaggi d’amore”. Questi due versi della canzone che Simone Cristicchi ha scritto per la colonna sonora di Cose dell’altro mondo, riassumono assai bene le suggestioni e le emozioni di cui si nutre e che riesce a restituire l’ultimo film di Francesco Patierno, ormai lontano da quel realismo aspro e disperato della folgorante opera prima, Pater Familias, con cui si era affacciato sul panorama cinematografico italiano nel 2004. Perche se è vero, come recita l’incipit della canzone di Cristicchi, che ci troviamo in una situazione e in un’atmosfera da fine del mondo, rappresentata come il crollo di tutte le certezze sulle quali si regge e si organizza la società in cui viviamo, il modo in cui è portato avanti il racconto evita la retorica del cinema catastrofico, vira dalle durezze del realismo di denuncia e affida il valore della riflessione morale e sociale inizialmente alla carica sovversiva della commedia con venature grottesche, per poi scivolare dentro un tono più delicato e malinconico, con qualche tocco di poesia e surrealismo.
Lo spunto della storia potrebbe essere degno dell’idea che aveva animato Miracolo a Milano, ispirato tentativo di realismo magico della coppia De Sica-Zavattini, in cui gli abitanti di una baraccopoli resistono attraverso la fantasia e l’immaginazione allo sfratto da parte di un avido industriale. In quel caso i poveri, gli emarginati, gli “altri” provenivano prevalentemente dal Sud dell’Italia e alla fine volavano via su delle scope. Nell’Italia di oggi gli “altri” non possono invece che provenire dalle varie periferie del mondo occidentale e industrializzato e l’immaginazione e la fantasia sono state messe a tacere dalla voce della televisione a cui infatti Patierno affida il compito di comunicare l’evento clamoroso e destabilizzante, la scomparsa di tutti i cittadini extra-comunitari che, a partire da una cittadina del Veneto, si allarga a macchia d’olio in tutto il Paese, rivelando la fragilità e la precarietà di un sistema,che fin nelle sue fondamenta, è alimentato e sostenuto dai lavoratori stranieri. E quelle persone, la cui presenza è superficialmente percepita come estranea e minacciosa rispetto ad un mondo chiuso, autoreferenziale, regolato dalle logiche dello sfruttamento e della prevaricazione, riveleranno, proprio nella loro assenza dalla quotidianità, quanto siano al contrario profondamente radicate nella parte più intima non solo dell’apparato socio-economico, ma anche, e soprattutto, nella rete di relazioni personali ed affettive.
Patierno sceglie così di seguire i percorsi di tre personaggi, toccati in prima persona dalla paradossalità dell’evento, a cominciare da Diego Abatantuono, industriale veneto che, con un trucco simile al Mangiafuoco di Pinocchio, inveisce da una televisione locale a un sorta di secondo diluvio universale (Appropinquante fine mundi) contro l’invasione straniera, un immagine contraddetta dall’inquadratura in cui cerca un po’ di dolcezza e calore da una prostituta africana; e poi ci sono la coppia apparentemente inconciliabile composta da Valerio Mastandrea, poliziotto cinico, disincanto, incurante di qualsiasi deontologia professionale (soprattutto nell’uso e abuso della pistola), ma capace di inaspettati slanci di umanità e solidarietà; e Valentina Lodovini, maestra elementare guidata da un fervido idealismo con cui azzera le contraddizioni del fenomeno integrazione, salvo poi entrare in crisi davanti alla proposta di matrimonio dell’operaio nero dal quale aspetta un figlio. Figurine umane presentate nel loro momento di contrappasso e di spiazzamento, con l’apporto essenziale degli attori chiamati ad offrire una possibilità in più di riconoscimento e di identificazione a quei personaggi e a quelle situazioni, in modo che lo spettatore rimanga coinvolto e interessato e non schiacciato dall’assurdità della storia.
Così Abatantuono interpreta il suo industrialotto genuinamente e pateticamente razzista come una contro-parodia del terrunciello con cui divenne famoso agli esordi, Mastandrea continua a iniettare i succhi del cinismo mortale del carattere romano, contraddetto da un fondo di bonaria generosità, nella sua espressività sconsolata, e la Lodovini si confronta con una variazione della maestra idealista coinvolta in un storia inter-razziale come già ne La giusta distanza, con una recitazione sobria e sfumata che si svincola dal tono sdolcinato e mieloso a cui un personaggio cosi “carino” e positivo poteva facilmente prestarsi.
Se agli interpreti spetta il compito di intercettare e sintonizzare sulla stessa lunghezza d’onda della storia le reazioni del pubblico, dal canto suo la regia cerca di tenere insieme ogni esigenza e ogni istanza narrativa, con quell’immagine spinta fino al limite del grottesco, memore dello spirito di Marco Ferreri (chi ricorda El cochecito, un vecchio paralitico alla ricerca di una sedia a rotelle motorizzata?), degli anziani disabili senza più badanti, che vagano sperduti e abbandonati per la città e Mastandrea che, altrettanto sperduto e abbandonato, va in mutande e vestaglia alla ricerca della madre malata di Alzheimer.
Ma da quel punto in poi il tono del film non va in crescendo, non c’è accumulo di situazioni sempre più esasperate e surreali, anzi potremmo dire che procede in un volontario diminuendo, smorza la carica aggressiva, passa dall’atmosfera allucinata e visionaria dell’anatema tv di Abatantuono (urla un pazzo per la strada) a una parte centrale in cui sembra incerto, indeciso nel cercare una conclusione con momenti ripetitivi che rasentano la stucchevolezza (il “gioco” che la Lodovini e Mastandrea fanno con i bambini, chiara necessità di esplicitare il messaggio di integrazione) o informazioni superflue, perchè non aggiunge nulla sapere che la Lodovini è figlia di Abatantuono visto che poi il rapporto non è approfondito o scandagliato e rimane una curiosità inesplorata. Patierno però riprende nel finale una direzione più precisa, abbandona la polemica e la rabbia e, attraverso un’invenzione che cerca la piccola poesia della provincia cara alla scrittura di Tonino Guerra, risolve l’impasse della spiegazione finale, rimanendo nel sospeso, nel metaforico, nel magico. Ecco quindi il mago interpretato da Segio Bustric che invita ogni nostalgico e immalinconito cittadino a portare un oggetto appartenuto ai loro “cari” stranieri come farebbe un innamorato abbandonato, cosi da poter costruire un enorme feticcio da bruciare e sacrificare in modo da invocare il perdono e il conseguente ritorno come si farebbe con delle divinità pagane, un’imma
gine a dire il vero più simbolica, evocativa, liberatoria che religiosa o legata al trascendentale. La mdp di Patierno abbandona progressivamente la polemica e la rabbia cosi come i volti dei piccoli uomini e delle piccole donne di una provincia italiana del nord italia si scoprono commossi davanti a quel cumulo di ricordi che diventano cenere, oltre il confine del pregiudizio, della paura, dell’ignoranza, incapaci di sfuggire alla loro natura, magari un po’ consolatoria, di esseri umani alla ricerca di affetto e tenerezza.
…e noi aggrappati ad un cellulare ci mandiamo messaggi d’amore.