Perchè sì

Perchè no

di Alessandro Baratti

Ospitiamo la recensione di Alessandro Baratti uscita su la rivista online Spietati.it

È possibile girare un film tra un padre una figlia senza blandizie o ruffianerie sentimentali? Sofia Coppola accetta – e stravince – la sfida firmando una pellicola teneramente disadorna, filiforme e soavemente stralunata. Lenti Zeiss d’epoca rispolverate dalla soffitta paterna (quelle usate nel 1983 per Rusty il selvaggio), la trentanovenne cineasta americana affida la direzione della fotografia al vansantiano Harris Savides, il ruolo di protagonista a Stephen Dorff (sorta di Matt Dillon 2.0) e la parte di coprotagonista a Elle Fanning nei panni di Cleo, eterea ma sensibile presenza che porta una ventata di realtà nella casa delle bambole del divo Johnny Marco, il leggendario Chateau Marmont di Los Angeles.
Intontito dall’uso di alcool e farmaci, sbigottito dall’assurda campagna di lancio del film appena terminato e pigramente coinvolto in sonnacchiose performance erotiche, Johnny è costretto a interrompere la narcotica routine dall’irruzione involontaria della figlia Cleo, ragazzina undicenne recapitatagli dall’ex moglie Layla (Lala Sloatman). Nell’accogliente camera d’albergo del Marmont prima (complici i videogiochi interattivi) e nella faraonica suite di un hotel milanese poi (complice la piscina privata e i gelati notturni), l’intesa tra i due migliora gradualmente, fino a culminare in una sortita fuori programma a Las Vegas, ultima parentesi d’azzardo che precede la partenza di Cleo per il campo estivo. Lasciata la figlia e tornato allo Chateau, Johnny è assalito dall’angoscia: non si sente “nemmeno una persona”, chiede invano assistenza telefonica all’ex moglie (“fai del volontariato” gli risponde) e, infine, decide di abbandonare il Marmont. Senza meta.
 A descriverlo sembrerebbe un film patetico, melenso e strappalacrime. Ma, come al solito, è il modo in cui è trattata la materia a fare la differenza (chiedo scusa per l’espressione abusata): inquadrature fisse, comicità deadpan, direzione degli attori antiteatrale, Sofia Coppola smorza ogni accento enfatico e castiga pudicamente l’ostentazione delle emozioni, rappresentando la vicenda di Johnny e Cleo con una misura di assoluta semplicità (il che ovviamente non è sinonimo di banalità o, al contrario, affettazione). Un’impronta cinematografica minimale che, pur vicina al grado zero dello stile, non rinuncia alla quadratura compositiva (l’epilogo spezza il cerchio del prologo) o a sottili assonanze interne (il lento movimento di macchina sul divo imprigionato nella maschera di lattice rima con lo zoom all’indietro su Johnny e Cleo a bordo piscina).
Musica quasi esclusivamente diegetica (Amerie, Gwen Stefani, Sebastien Tellier, T. Rex), luce prevalentemente naturale (fa eccezione la sconcertante cerimonia dei Telegatti) e recitazione non priva di momenti improvvisati (soprattutto le scene con Sammy, interpretato da Chris Pontius), Somewhere è sonoramente incorniciato dalla bipartita Love Like A Sunset dei Phoenix e visivamente incastonato con sequenze di cristallino nitore affettivo (mentre Cleo pattina sul ghiaccio Johnny la osserva con crescente attenzione, immersi nell’acqua i due scherzano amabilmente). Non c’è astuzia o malizia nel quarto lungometraggio di Sofia Coppola: mancano, vivaddio, le arguzie di scrittura che ammorbano tanto cinema americano indie (basti pensare all’incommentabile Guida per riconoscere i tuoi santi di Dito Montiel). C’è soltanto la lucida determinazione di sbarazzarsi del superfluo e delle bellurie spettacolari, tessendo un film di quintessenziale candore, come la veste in khadi di Gandhi. Un film di spoglia, francescana bellezza.

di Alessia Brandoni

E’ uno spazio ricco di potenzialità, il piano sequenza fisso con cui Sofia Coppola apre il suo ultimo film. Come anche il suo cinema, indubbiamente talentuoso e non privo di suggestioni. Una pista ellittica e polverosa nel nulla del deserto californiano, una Ferrari che gira a vuoto lungo il percorso mal tracciato, la cinepresa della regista che fissa un passaggio della macchina – una porzione della realtà di chi è alla guida – lasciando fuori campo gran parte della corsa e delle possibili storie. Una gran bella inquadratura che riporta tanto al (rivisitato) mito della frontiera (anche nell’accezione temporale di passaggio) che alla configurazione di spazi/stalli esistenziali, pensiamo al Wenders americano. Poi però tutto si normalizza. La crisi del protagonista, un attore “carino“ e superficiale, prende strade più usuali e non così interessanti, trovando paciosa risoluzione nell’assunzione di responsabilità nei confronti della figlia undicenne. Tra la fase iniziale a base di feste, sesso e successo facile e l’happy end finale, si affaccia un debolissimo accenno di analisi e comprensione del problema, ma la macchina da presa, quasi sempre un passo indietro rispetto al già pigro incedere del protagonista, sembra fungere da culla e giustificazione alla paralisi edonistica di Jhonny Marco. Del tutto incapace di guardare al futuro, Marco sembra completamente in balia degli eventi (con la mdp a raccogliere le sue cadute), salvo appunto lasciare in extremis la propria Ferrari nel vuoto del deserto e proseguire a piedi, sorridente, verso la ritrovata prospettiva di paternità. Ora, a parte la suggestione liberatoria che rimanda a Teorema di Pier Paolo Pasolini (salvo che lì non c’è redenzione e la crisi viene messa a setaccio), molto più prosaicamente il sacrificio del protagonista mi fa venire in mente quello che una tipa (e penso non solo lei) una volta disse a proposito del tema “maternità e rinunce“: “ti giuro, rinuncerei a tutto!”, “tipo?”, dissi io, “rinuncerei… rinuncerei… guarda, rinuncerei anche a farmi le canne, te lo giuro!”. Ecco. Anche il sacrificio si è fatto debole. Sofia Coppola, autrice di sensibilità indubbiamente contemporanea, si è da sempre concentrata sulla rappresentazione del pensiero debole dal di dentro, non rifuggendo, cioè, dal mostrare la fascinazione rispetto alle suggestioni postmoderne (pensiamo alla compressione spazio-temporale con riuscito effetto disorientante di Lost in Translation). Ma questa volta, invece, lo stare dentro e fuori il gioco non pare aver funzionato, non le è riuscito, cioè, di sviluppare un po’ di critica al sistema che ha messo al centro della sua indagine (scegliendo peraltro una linearità della narrazione che mal si coniuga con l‘ambiguità delle immagini). Ne è stata soggiogata, fascinata, in definitiva dominata. E qui, forse, entra in gioco il fantasma paterno. Molte delle situazioni che la regista mette in scena, infatti, sono rielaborazioni di fatti a lei realmente accaduti (il continuo vagabondare per gli hotel internazionali al seguito del padre, la consegna dei Telegatti – scena presuntuosa ma che dimostra cosa la Coppola potrebbe fare mettendoci un po’ più di cattiveria). La regista sembra avere molto a cuore il mondo dell’adolescenza e la complessa relazione che questi insatura con quello adulto. Ma sarebbe forse opportuno uccidere, almeno un po’, questo ingombrante fantasma paterno per riuscire a esprimere con pienezza le proprie potenzialità. Diversamente nel bel film d’esordio, Il giardino delle vergini suicide, Sofia Coppola non faceva sconti ai ragazzini che idealizzando le belle sorelle/vergini in realtà non facevano altro che abbandonarle alla loro eccezionalità e alla loro solitudine. Un’ambivalenza che scorreva, suadente, lungo tutto il film per poi concentrarsi in un finale molto amaro. Quasi una vendetta della piccola Sofia contro i coetanei incontrati nel suo peregrinare che (anche per vanità) non erano riusciti a proteggerla e a trattarla come una di loro. Eppure, rispetto ai conti con il padre (che – ahinoi! – è ancora materia buona per mille e più film), l’autrice sembra fluttuare dentro una fuga nostalgica e idealizzante. E, per quanto interessa noi spettatori, ciò si traduce in una evidente debolezza progettuale del film. Come corollario di questa – diciamo così – eccessiva moderazione, ecco rivitalizzarsi la solita morale conservatrice (molto attuale) che vede la risoluzione dei conflitti e delle sfide postmoderne dentro facili pacificazioni e verità eterne.

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