di Giovannella Rendi/Diciamolo subito: è stato il nome di Gustave Kervern nel cast ad attrarre la nostra attenzione verso un film dal titolo così poco invitante (in origine Asphalte, ennesimo capitolo della delirante odissea della traduzione dei titoli stranieri in lingua italiana, di cui forse un giorno qualcuno scriverà la storia). La sola presenza di Kervern, regista insieme a Benoit Delépin di due capolavori di umorismo nero come Aaltra (in cui è anche interprete co-protagonista) e Louise-Michel, ci sembrava garanzia di una certa surreale cattiveria, che però svapora rapidamente nelle prime scene del film, per lasciare spazio a quello che interessa veramente il regista e romanziere Samuel Benchetrit, ovvero storie di ordinaria alienazione urbana.
Tratto dal romanzo Les Chroniques de l’Asphalte del 2005, il film si articola su tre vicende parallele ambientate in un condominio di una periferia non meglio precisata, dove tutti sembrano ignorarsi con una certa ostilità ma invece si sviluppano insospettabili alleanze. L’inquilino dispettoso che non vuole pagare il restauro dell’ascensore si ritrova ad averne bisogno ed è costretto ad usarlo solo di nascosto e quindi di fatto a vivere di notte, quando l’unica persona che incontra è un’infermiera dell’ospedale in pausa sigaretta. Un ragazzino abbandonato dalla madre e appassionato di cinema aiuta un’attrice in declino a rimettersi in sella. Infine, un astronauta piove letteralmente dal cielo sul tetto del condominio e viene amorevolmente accolto da un’anziana signora magrebina.
Al centro della pellicola, girata quasi interamente nel palazzo (soffermandosi sui corridoi sudici, l’ascensore dai colori acidi al neon, l’atrio e gli esterni malridotti e danneggiati) secondo il regista c’è il tema della caduta: dal cielo, dalla sedia a rotelle, dal piedistallo. In parallelo, e forse di più, si delinea il tema dell’assenza di un oggetto di amore e della sua ricerca anche se in funzione di accudimento “rovesciato”, per così dire, ovvero chi dovrebbe per età e condizione essere accudito trova il senso della sua vita nell’occuparsi degli altri: il giovane astronauta sostituisce il vero figlio che invece è in prigione, l’attrice come madre infantile e narcisista, l’invisibile infermiera notturna diviene il soggetto di un finto fotografo innamorato.
Ben scritto, girato con attenzione anche se senza troppa fantasia, con un cast che si avvale niente di meno che di Isabelle Huppert, Valeria Bruni-Tedeschi e Michael Pitt (nel ruolo dell’astronauta), Il condominio dei cuori infranti ha però un sostanziale difetto, ovvero che il regista e sceneggiatore nell’impostare le tre vicende si brucia subito i risvolti più surreali e sorprendenti, e di conseguenza lo spettatore è in grado di anticipare un attimo prima tutti gli svolgimenti successivi. Questo appare evidente in particolare nell’episodio dell’attrice in declino, in cui la Huppert pur nella sua consueta bravura e con una certa autoironia “schiaccia” il personaggio del saggio adolescente Charly, e nel caso dell’amore notturno tra il paraplegico e l’infermiera, che però ha sempre la faccia e la voce di Valeria Bruni-Tedeschi, un po’ sprecata nella bidimensionalità del personaggio.
Decisamente meglio riuscito è l’episodio dell’astronauta, che gioca più scopertamente con il surreale e che si avvale di tutta una serie di gag per risolvere il problema della comunicazione (lui non parla francese, lei non parla inglese, quando la NASA la contatta, la prima cosa che le chiede è se ha sentimenti antiamericani). Entrambi i personaggi sono tratteggiati con maggiore umorismo e tenerezza, la loro reciproca solitudine fa sì che sia proprio un alieno (l’uomo che cade letteralmente sulla terra) la persona con cui si riesce maggiormente a stabilire un contatto.
Viene il sospetto che utilizzando attori meno conosciuti vi sarebbe potuta essere una maggiore omogeneità ed equilibrio, che si potesse osare un graffio in più qua e là, qualche lampo di cattiveria e humor nero. Il condominio post apocalittico ricorda molto, molto alla lontana quello di Delicatessen di Jeunet e Caro, ma lì si rischiava la vita, per essere mangiati, qui il male è la solitudine: e non si sa cosa è peggio.