Documentario ispirato alle confessioni lasciate in un diario dal giovane Emanuele Patanè, ricercatore morto nel 2003 di tumore ai polmoni, in seguito al lavoro svolto nei laboratori dell’Università di Catania, che nel suo memoriale denuncia le condizioni insicure in cui versano quei laboratori, a partire dal malfunzionamento delle cappe aspiranti. Il processo a carico dell’ex rettore e di alcuni docenti, iniziato nel 2008, dovrebbe arrivare a sentenza di primo grado a dicembre.
Inquadrature strette, strettissime, a volte claustrofobiche, definiscono eloquentemente quel respiro che manca, l’entità del tempo dedicato a una passione che, nelle inquadrature della propria vita, non lascia spazio ad altro.
Il rock ci racconta la vita, la passione ribelle allo stato delle cose e irrompe sullo schermo con colori cupi, acidi, con una fisicità irresistibile….
Il laboratorio ammalia con luminosità e trasparenze, giochi di vetri, metalli e riflessi. Ma presto soffoca, mostrando i denti della solitudine e dell’ossessione, che, nell’insalubrità dell’ambiente, diventa quasi allucinazione, perdendo i tratti gioiosi della meraviglia, della conquista, della soddisfazione per il buon lavoro svolto.
Tutto questo muoversi viene accompagnato incessantemente da una triade interessante. Anna (Anna Balestrieri), ribelle, intensa, dedita alla musica dopo la delusione di un’Università che non rispetta e non tutela i suoi figli.
Stella (Alba Rohrwacher), pacata, laboriosa, devota al suo sogno, al suo amore per la ricerca in laboratorio, fiduciosa, ignara e ignorante di quel mostro invisibile che la divora inesorabilmente, a tradimento.
La voce di Michele Riondino, narrante, fuori campo, aleggiante come fantasma attraverso le parole vere di Emanuele, il ragazzo dal cui diario è tratta la storia e che ha ispirato la realizzazione del corto.
Documentario sceneggiato e interpretato secondo i canoni della fiction, che rendono la realtà dell’informazione trasmessa ancora più forte, più emotiva, più aberrante.
Originale e accattivante l’utilizzo del personaggio di Stella come figura da un lato realistica, che aggancia emotivamente lo spettatore alla sua storia, alla sua capacità di raccontarla. Dall’altro simbolica, perché in realtà è come se Stella fosse Emanuele e tutti gli altri passati per quel laboratorio universitario in cerca di un futuro interrotto prematuramente da quelle stesse reazioni chimiche che nutrivano i loro sogni.
La dimensione narrativa si sviluppa su un doppio binario, un montaggio alternato fra lei, intervistata dalla regista in un “non luogo”, definito solo dai suoi primissimi piani e privo di riferimento temporale – comunque posteriore agli avvenimenti narrati – e la narrazione per immagini della sua vita quotidiana.
L’abilità della regista sta nell’intessere con maestria l’ambiguità di questo doppio racconto, in cui ben si intrecciano lo stile documentaristico e la pura fiction. Si crea così una forte tensione scenica, mischiando continuamente i piani di realtà, laddove uno risponde ad una realtà simbolica, che racconta i fatti quasi “dall’alto”, fuori dal tempo e a nome di tutti i coinvolti. L’altro racconta l’individuo con la sua vita, la sua passione, la sua unicità, la sua dedizione, la perdita, il vuoto, il silenzio.
che bella recensione Cecilia! spero di poter vedere il film in una prossima occasione