Il rifiuto di Ken Loach ha indubbiamente gettato una luce negativa sul TFF 2012, che si è spietatamente protratta almeno per i primi 4/5 giorni di programmazione prima di lasciare spazio a qualche film carino, e a un’organizzazione rodata.
Uno dei primi titoli del festival è stato più che altro una specie di esperimento pavloviano. Preceduto da un primo dato nefasto ( “I sottotitoli non ci sono”), un Losey in programmazione, dopo circa venti minuti dall’inizio ovvero proprio quando gli spettatori stavano, tra le insidie della lingua straniera, tentando di raccattare gli elementi base della storia, viene interrotto nel buio della sala da un vocione che informa gli spettatori sul fatto che, evidentemente, il film proiettato non era quello di Losey, ma un altro film (suo omonimo): “L’abbiamo fatto per vedere quanto stavate attenti”. E infatti dopo mezz’ora nessuno se n’era accorto, anche perché la maggior parte dei presenti in sala già dormiva da tempo, dimostrando una volta per tutte che, come ogni anno, l’obiettivo principale degli spettatori (ancora prima del fatto di dover mangiare un Kebab di sola cipolla dal kebabbaro di via venti settembre per poi stroncare il vicino di sedia al primo sospiro) è quello di farsi finalmente un’onesta dormita in santa pace.
La sala affianco accoglie, dunque, prontamente gli esodati della sala disagiata grazie a una comunicazione estremamente ufficiale di uno dello staff, che consiste nel dire a voce bassa a un cerchio di tre persone che potevano entrare prima di quelli che erano nella rush line (what’s rush line?) per l’altro film. Cosa, questa, che genera una sommossa popolare in comune tra questi ultimi e gli altri non compresi nell’ampio cerchio, che, a sua volta, constringe l’uomo alla fuga con le prime luci dell’alba salpando da Torino per l’America, dopo aver lasciato un biglietto alla moglie con su scritto a penna nera a punta sottile “Non cercarmi. Non è come pensi. È molto peggio”.
Anche in questa sala, però, sembra esserci un problema di sottotitoli, in questo caso posizionati al di sotto del livello del pavimento, negli scantinati del cinema. Poiché per leggerli si doveva, appunto, scendere al piano di sotto, alla fine i più pigri decidevano di affidarsi al solo inglese. Al termine, radunati in bische clandestine, gli stessi si sono giocati cifre folli su chi si avvicinava di meno a quello che voleva dire il film. I restanti, invece, hanno parlato della migliore pennica della loro vita.
Fuori dalla sala di uno dei film di punta della valente sezione Rapporto Confidenziale distribuivano delle bustine di plastiche dalla Snav Aliscafi. Là per là non si è capito bene perché, cosa che invece è apparsa particolarmente chiara, in tutta la sua potenza, dai quindici minuti in poi: in caso di vomito. Purtroppo, non per la truculenza delle scene, ma proprio per la sceneggiatura (una sezione di selezinatori del TFF è già al lavoro per l’istituzione di un nuovo premio “bustina di plastica per la sceneggiatura”). La proiezione è stata in più penalizzata dal verificarsi di uno spiacevole evento che ha minato ancora di più il valore dell’audace pellicola: un intervento di TSO nella sala Reposi 2, sollecitato da una chiamata anonima. Il centro di salute mentale delle Molinette ha poi ricostruito e divulgato la versione dei fatti tramite la distribuzione di briciole ai giornalisti affamati in cortile. I medici hanno dichiarato che l’uomo in questione, un critico cinematografico trentottenne, era giunto al pronto soccorso tremante, con la bocca che schiumava, in preda a una vera crisi epilettica: non riusciva a capire come mai i protagonisti del film si ostinassero a stare sull’isola maledetta invece di prendere la via di casa, dal momento che non c’era niente che glielo impedisse. È stato poi anche accertato che la telefonata – inizialmente data per anonima – era partita dal cellulare di un 89enne, suo vicino di sedia, che, essendo stato scartato settantanni prima allo Splatter Terrible Trash Brutal Film Festival, era interessatissimo a capire come funzionavano i peggio film della storia. A quanto pare, il critico ricoverato aveva avuto l’atroce sfiga di capitare proprio vicino all’unico spettatore interessato al film, anche perché i restanti dormivano beatamente.
“Quest’ anno abbiamo deciso di investire tutto sui riscaldamenti”, ha dichiarato Gianni Amelio durante la conferenza stampa di apertura. E, vuoi mettere, vedere un film di merda però al caldo?
In ongi caso, la bassa qualità dei film passa decisamente in secondo piano rispetto a un dettaglio, che diventa immediatamente il punctum barthesiano dei film introdotti da Gianni Amelio (siparietto d’aperutra che prevede sempre uno stesso copione: Amelio, un suo amico regista e una discreta quantità di nomi di persona senza cognome, a cui i due fanno riferimento – Paolo, Giovanna, Marco ecc…, come se anche i 1200 spettatori presenti fossero amici intimi dei due). Il dettaglio in questione è: il parrucchino del direttore (della cui esistenza si è sparsa la voce durante una rush line. What’s rush line?). Questo inquietante dettaglio ha avuto sistematicamente la capacità sciamanica di trascendere per importanza il film. Il cervello degli spettatori edotti restava, infatti, intrappolato in quel dettaglio che riappariva violentemente davanti agli occhi degli stessi accompagnato da un violino stridulo come nei peggio flashback dei film di Dario Argento. Gli altri, fortunatamente, dormivano.
E, mentre nei locali del Lux una senzione distaccata e tardiva del Club to Club pompava musica a menetta pure nel cesso, le maschere del TFF, formate da un master biennale sul concetto di rush line dal titolo “rush line: prospettive, ruoli, punti di confronto”, venivano seguite da un équipe di psicologi ambulanti, che cercavano di contenere il delirio schizofrenico del dire contemporaneamente tutto e il contrario di tutte di cui spesso cadevano vittima.
Non si può fare a meno di dire, però, che i film di TFF di quest’anno erano accomunati tutti da un grande pregio: il fatto di durare poco. Un noto critico cinematografico giustamente dice che il tff quest’anno ha avuto mediamente una buona qualità “come ha dimostrato la crescente presenza del pubblico e degli accreditati”, che è un po’ come dire che le ristampe di un libro sono indice del valore del libro in sé e non della moda cui spesso la gente cede (facendo dunque impennare le vendite). Se molta gente va a vedere un film è automaticamente detto che ne resti soddisfatta? Non proprio.
Per finire, il presidente della giuria ha pensato bene di dare “il premio della giuria” a un film che fa sentire meno solo, nel panorama cinematografico, il protagonista del suo utimo lavoro quanto a peregrinare-desertificato-senza senso-alcuno.