[*** e 1/2] – Una discesa nei bassifondi del sogno democratico americano, un’immersione nel marcio della politica statunitense, al termine della quale ci si sente tutti, per quanto semplici spettatori e invero assai distanti da Washington, un po’ più sporchi e corrotti. Questo è Le idi di marzo di George Clooney, che senza pistole né sangue fotografa inesorabilmente l’anima più buia e intimamente violenta di un Paese, mentre si dibatte animalescamente sul palcoscenico della politica. Come un noir, solo con i corridoi del Palazzo e le stanze chiuse dei comitati elettorali al posto delle strade e delle bettole della Chicago anni ‘30.
La vicenda, tutta racchiusa nell’arco di pochi giorni, si svolge durante una ipotetica (assai realistica) campagna per le primarie del Partito Democratico, giocata sul testa a testa tra il senatore Ted Pullman, dal rassicurante profilo teodem, e il più progressista Governatore della Pennsylvania Mike Morris (interpretato dallo stesso Clooney). Ma il focus della sceneggiatura – firmata dal regista insieme a Grant Heslov a partire da un testo teatrale di Beau Willimon – non è tanto sui due contendenti, quanto sui rispettivi staff elettorali. In particolare, i riflettori vanno a puntarsi sul giovane addetto stampa di Morris, Stephen Meyers (Ryan Gosling), e sul suo personale percorso di perdita dell’innocenza, che lo porterà ad aprire troppi armadi e scoprirvi ancor più scheletri.
Clooney, alla quarta prova dietro la macchina da presa, conferma una precisa volontà autoriale di collocarsi nella scia di quei cineasti americani che dalla fine degli anni ’60 in poi hanno portato l’impegno politico dalle strade delle manifestazioni contro Nixon e la guerra in Vietnam fin dentro gli schermi del cinema mainstream. Vengono subito alla mente gli intrecci cospirativi di Pakula e Pollack, ma ancora più lampante in questo caso è il rimando al regista/attore (anche lui) Robert Redford, e in particolare a quel piccolo gioiello che era Il candidato (diretto da Michael Ritchie).
Talvolta discutibile nelle scelte d’attore, il Clooney-regista già in Good Night, and Good Luck aveva dimostrato, nel raccontare la storia vera di Ed Murrow, giornalista radiofonico black-listed durante il maccartismo, di concepire il proprio cinema come un luogo dove mettere in immagini una tensione civile che gran parte di Hollywood preferirebbe fuori dalle sale. Qui l’ex divo di E.R. si confronta con la questione capitale della vita pubblica Usa, l’incarnazione di tutte le aspettative sociali e morali del popolo americano: il Presidente. Perché se è vero che in queste idi di marzo il Presidente non si vede mai, la sua figura nemmeno evocata, è vero anche che sul volto invecchiato e un po’ smunto di Morris/Clooney, tra le pieghe di un portamento morale che da apparentemente irreprensibile si fa pian piano disinvolto fino a diventare del tutto riprovevole, si intuisce chiaramente la fisionomia di un possibile (futuro-passato-presente?) Capo di Stato.
Ma il degrado morale raccontato nel film trascende ampiamente la corruttibilità del singolo. La critica portata ai meccanismi della politica statunitense (peraltro facilmente estendibile altrove…) è chiaramente sistemica. Quella che si delinea nel film è una grossa messa in scena condivisa da tutte le parti in campo, ad uso e consumo di un elettorato scientificamente tradito: al bando ideali, ideologie e massimi sistemi, il logos politico si è ormai assolutizzato e fattosi autoreferenziale, la lotta per il potere è l’unica stella polare nell’agire di uomini resi indifferenti all’interesse pubblico, sensibili solo agli zeri degli assegni e delle percentuali di voto. Chi sbaglia è fuori dai giochi, altro che seconde opportunità, e i deboli sono agnelli sacrificali alla mercè dei più cinici.
Esplicita l’enorme bandiera a stelle e strisce, issata per il comizio del Governatore, che accoglie sotto di sé le silhouette dei protagonisti in una delle scene-chiave del film. È un pessimismo radicale quello di Clooney, nel senso che va alla radice, che non lascia scampo durante la visione e annichilisce lo spettatore a film concluso. Ma colpisce anche che il suo autore svolga il proprio discorso in una forma filmica ancor più matura e sicura che in Good Night. Lì dominava l’impronta engagé di cui si diceva, dando vita a un film freddo e oggettivo, quasi esclusivamente «dimostrativo». Le idi, invece, si concede di depistarci, portandoci a seguire i sentieri privati che conducono alle vite dei propri protagonisti. Nella prima parte si riscalda nei brevi ritratti di un’umanità contraddittoria ma affascinante, quella che abita il sottobosco dei grandi partiti, ci avvolge a tratti con la musica di Alexandre Desplat e le luci calde di Phedon Papamichael. La seconda, in cui la forma del thriller politico prende il sopravvento, è invece gelida e oscura, prevalentemente notturna, un vero attraversamento delle tenebre.
Ryan Gosling è un protagonista forse troppo robotico per le complesse sfumature che il suo personaggio gli richiede (per quanto sia ormai osannato a Hollywood e fuori), ma è l’unico elemento meno convincente di un cast superbo (Hoffman, Giamatti, Wood, Tomei, Wright…). All’interno del quale, a sorpresa, a emergere è proprio Clooney. Con un mezzo sorriso compiaciuto sempre stampato sulle labbra, la bellezza «confidenziale» e la dialettica persuasiva e pulita da ex primo della classe, Clooney si auto-infligge un volto di plastica, di pura artefazione, che se per metà allude chiaramente all’attuale Presidente in carica, per l’altra metà sembra chiamare in causa la sua stessa, consolidata e (consapevolmente?) scipita, maschera divistica.