“Eravamo una sostanza ferma/ e immota al divenire, senza/ accidenti e senza coscienza./ Una matassa col filo riavvolto,/ soli, in una quiete che sembrava/ pace e che era soltanto la sua/ immagine più elementare”. (Mariaenrica Giannuzzi, da Genesi, ed. Gattomerlino).

L’elemento del cominciamento, infatti, è stato uno dei nodi che abbiamo corteggiato nelle giornate del MoliseCinema, come –sub specie aeternitatis– un rotolo di pellicola sacra disseminato in una proliferazione di incontri, domande e luoghi che, direbbe forse il nostro autore, ci ha restituito il giallo bagliore della terra come solo nei quadri di Van Gogh.  Non c’è paesaggio che non sia anche materia a Casacalenda, e anche la spina che corteggia la ferita finisce per diventare qualcos’altro. Qualcosa che include la forma dell’insieme? Qualche estensione in cui il buio della scena primaria può assumere forme inedite e metamorfiche? Qualche dove in cui le luci della stazione in cui arriva il primo treno del mattino suppurano di gioia?

A Casacalenda -paese di origine incerta, colonia osca o romana al tempo chiamata Kalena– si è appena tenuto il 20° Molise Film Festival, che all’interno del suo suggestivo e articolato programma ha ospitato un generoso omaggio ad Antonio Capuano. E quindi il 5 agosto, nella splendida Arena montata nel cuore del paese, un pubblico numeroso ha potuto vedere l’ultimo film del regista napoletano, Il buco in testa, mentre la mattina del 6 agosto, nell’incantevole Cinema Teatro, restaurato e recuperato grazie all’inesauribile energia e visionarietà del direttore del MoliseCinema, Federico Pommier,  il critico cinematografico e docente universitario Giacomo Ravesi, con magnifica perizia e altrettanta passione, ha condotto l’incontro seminariale con gli autori del libro Da una prospettiva eccedente. In dialogo con Antonio Capuano, Armando Andria, Alessia Brandoni, Fabrizio Croce (tutti e tre redattori di Schermaglie). Libro edito da Artdigiland, e progetto editoriale curato fin dall’inizio da Silvia Tarquini.

Dicevamo che la scaturigine -e sue desiderabili proliferazioni- sta a monte del discorso sul cinema di Capuano che gli autori del libro hanno provato ad offrire ai partecipanti all’incontro. Ma non un oggetto o un tema di discussione, piuttosto una relazione e un corpo a corpo con le immagini e con lo sguardo di uno dei registi più significativi della scena cinematografica contemporanea. Da questa prospettiva, gli autori hanno proposto la visione di tre clip estratte da altrettanti film di Capuano –Il buco in testa, Vito e gli altri, Pianese Nunzio 14 anni a maggio– tutte e tre consistenti nell’incipit dei film. Buio e cominciamenti possibili, quindi. E poi caos e forma, e libertà e necessità. Ma forse, prima ancora, l’immagine come apertura –ferita, piaga, corpo, luce, domanda. L’immagine primaria del cinema di Antonio Capuano come qualcosa che, in un’apertura, libera qualcosa che ci riguarda.

“Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole”. (Italo Calvino, da Le città invisibili)

In questo senso -messaggi in viaggio nella stessa bottiglia- riportiamo anche gli incipit dei saggi che compongono la seconda parte del libro.

“Quasi non è un modo per tirarsi fuori o per restare innocenti. L’esordio di Capuano respinge lo spettatore educato, quello che si àncora a un canone per evitare, magari, l’esperienza del deragliamento e della caduta. Stare nel cinema di Capuano, installarsi per un po’ di tempo nelle sue immagini, significa anche correre il rischio di legarsi a qualcuno e a qualcosa, di fare-legame con il suo cinema e anche con qualcos’altro. Con una forma del pensare, forse, che allentando la consuetudine conciliante e un po’ repressiva indotta da tanto cinema ipernarrativo, prova ad aprirsi a un’esperienza che sia anche più intimamente e politicamente legata allo sguardo e alla coscienza che si muovono e si ricreano insieme alle immagini – immagini dense che non rinunciano a destrutturare. Il cinema come campo di relazioni e di potenze. Come esperienza estetica ed etica. Un cinema singolare fatto di corpi e affetti. Un viaggio che allarga la sensibilità perché sempre in rapporto con ciò che incontra, e che ogni volta, nella durata, ci pone lungo la soglia di un impensato, di un aperto, luogo non irrelato ma sempre in relazione, mediato, in cui l’immagine non può dire tutta la realtà ma, strappando un velo, qualcosa lascia vedere. In questo senso il quasi sta a dire dell’ovvia impossibilità di poter dire tutto, sul suo cinema. Un avviso ai naviganti. E un ormeggio per chi scrive”. (“Vito e gli altri. Quasi un découpage”, di Alessia Brandoni).

“Se volessimo varcare la soglia dell’immaginario cinematografico che ha esplorato le dinamiche soggiacenti ad ogni rapporto di forza e prevaricazione, il primo titolo da mettere in programma in un’ipotetica rassegna sarebbe senza esitazione Salò di Pier Paolo Pasolini: ispirato al testo sacro, il vademecum, la fiera delle atrocità di tutte le degenerazioni che riguardano la carne e le sue pulsioni, quand’esse si mischiano all’ossessione per la radicalità di ogni gesto e ogni pratica, al di là del bene e del male: Le 120 giornate di Sodoma del Marchese de Sade. Film testamento, a prescindere dal dato della morte di Pasolini avvenuta poco dopo le riprese nella modalità brutale e violenta dell’adescamento e dell’omicidio per procura da parte di un potere che si sentiva minacciato dalla sua figura di artista e intellettuale libero, sanciva il passaggio da una rappresentazione vitale e spontanea del corpo erotico della giovinezza (il trittico Decameron – Racconti di Canterbury – Il fiore delle Mille e una notte) alla messa in scena di una ritualizzazione non più sacra, ma pagana e profana, dell’atto desiderante e la sottomissione di ogni contatto e di ogni amplesso a un sistema corrotto e impuro”. (“E’ corpo. E’ amore. E’ identità. Vertigine e potere del desiderio in Pianese Nunzio, 14 anni a maggio”, di Fabrizio Croce).

“1991, Vito e gli altri, un pianosequenza circolare. Una tv, inquadrata a tutto schermo, rimanda le immagini di un programma in cui si festeggia la notte di capodanno. La camera si allontana dall’apparecchio muovendosi lentamente all’interno di un soggiorno, fino a scoprire il cadavere di una donna riverso su una tavola imbandita a festa. Poi una sedia capovolta come dopo una zuffa, in fondo una credenza bassa di quelle da vecchio salotto italiano e un albero di Natale, quindi di nuovo in primo piano un divano su cui giace una seconda donna morta, dietro di lei un enorme poster che immortala un esotico paesaggio autunnale. Qui la sequenza, con un movimento virtuoso della mdp, sempre senza staccare, diventa una soggettiva, la soggettiva del padre-omicida che punta la pistola contro un ragazzino, suo figlio Vito, la pistola trema, l’uomo è stravolto dalla tensione, Vito gli dice: «Io, a te, mi devi regalare il motorino», il padre non spara e dice: «Ho bisogno di aria»”. (“Antonio Capuano, filmare con(tro) il tempo”, di Armando Andria).

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