Partiamo da lontano: dalla verdura tirata in faccia ai poveri Franchi, Marra e Porporati a Venezia 2007. Era l’ennesimo funerale di un cinema italiano morto almeno cinquant’anni prima, per almeno cento volte. A Venezia si erano mangiati i tre del concorso come agnellini conditi con salse diverse: al Paoletto di Nessuna qualità agli eroi avevano dato del presuntuoso, del gratuitamente complicato, dell’esteta muto. Poteva anche starci, ma in un discorso serio sarebbe stato necessario aggiungere ed argomentare, soffermarsi sul tentativo di un cinema diverso e personale, complesso, poco omologato e addirittura coraggioso. Non è stato fatto!
A Vincenzino da “Secondigliano”, poi, non certo mister simpatia, non erano state concesse le attenuanti per un film che, seppure discutibile e non del tutto riuscito, possedeva aspetti quantomeno rilevanti e poneva quesiti interessanti. Non era stato sufficientemente scritto che il suo L’ora di punta era un film sul presente pubblico e un’opera più problematica di un’accattivante, morbida riflessione sul costume. Non era stato preso in considerazione nemmeno il passaggio (del regista) da un territorio “fidato” e “sicuro” come quello dell’hinterland napoletano a una Roma esterna alla sua vita, sconosciuta e raccontata senza televisismi e mezzucci architettonico/scenografici che questa città, col suo fascino iper cinematografico, può garantire a tutti gli autori. Tutto questo è stato fatto? Macché! Non è stato fatto per niente e si è parlato di un film inguardabile e squilibrato. La verità, come al solito, stava molto nel mezzo, ma faceva meno clamore e più confusione che annunciare la solita morte del cinema italiano, accertata da una critica festivaliera perfettamente a suo agio nei soliti panni del medico legale.
Porporati, per concludere sul fallimento veneziano, se l’era cavata con una sostanziale indifferenza, visto che il suo film, Il dolce e l’amaro (il peggiore dei tre) è stato quello più innocuo da un punto di vista tematico e formale. La pellicola somigliava molto al suo titolo, con quella rassicurante miscela emozionale che narcotizza la penna e il giudizio. Film inutile e nato morto, Il dolce e l’amaro, vivo solo nella scena della rapina in banca: quella sì davvero geniale!
Per stappare una bottiglia di buon vino, alla fine dei giochi veneziani, la critica aveva dovuto attendere le performance delle sezioni collaterali: la discesa in schermo, originale e silenziosa, del povero Zanasi e la vuota precisione del “giovane” Andrea Molaioli. La vecchie facce-padrone si erano addirittura messe a ballare sulla brillantezza brevilinea del “gener(oso)” La Ragazza del lago e se al primo film avevano garantito un’uscita in sala vistosamente dignitosa (ed orientato positivamente le opinioni di un pubblico che avrebbe comunque apprezzato, viste le armi a disposizione dell’azzeccato Non pensarci) al secondo avevano persino preparato un tappeto di fiori e complimenti che avrebbe prodotto, da lì alla primavera successiva, l’inspiegabile farsa dei David, con un numero esagerato, controproducente e nauseante di premi. Ci mancava solo il David per gli odori, e non c’è altra spiegazione che quella della follia, visto che anche l’imbarazzante esordio biondomucciniano (l’arditamente “Nuovelvaguese” Parlami d’amore) si era portato a casa il suo forzato e ridicolo David. Chi scrive non ha trovato in Non pensarci la speciale originalità avvertita da molti e ritiene questa commedia riminese (di certo atipica, ma troppo dominata da un Mastandrea mattatore e da una serie di contenutismi già noti alle forze critiche nazionali) sopravvalutata dal bisogno di trovare vie d’uscita da una cerimonia triste e preoccupante. Le discussioni fatte con altri interlocutori gli hanno fatto spesso pensare di aver preso un abbaglio e potrebbe anche essere, viste le autorevoli e quasi unanimi recensioni positive sul film, ma l’autore di questa riflessione sulle strane morti e rinascite del cinema italiano recente, ricorda di aver visto il film di Zanasi con molta attenzione e di nutrire una sincera passione per le commedie intelligenti e parlanti.
A dirla tutta, poi, quando si era trovato finalmente a tu per tu con l’osannato e pluripremiato esordio molaioliano non ne era certo rimasto incantato e avrebbe preferito che un interessante esordio di genere fosse considerato per il suo reale valore: quello di un magro e fosco giallo, ben costruito e smagliante, ma non certo un film da sollevare come un papa in processione pieno d’oro, onori e applausi.
La ragazza del lago è un piccolo film, gradevole e rapido ma privo di un legame sorprendente tra regole cinematografiche ben applicate e realtà extrafilmiche. Un film tirato via, per giunta (come si usa dire in gergo critico), nella parte finale, quando la faccenda si risolve come un accordo preso in fretta da chi ha da svolgere altri impegni. Certi personaggi, per chiudere il discorso, certe strizzate d’occhio alla macchina da presa sembravano palleggi professionistici per far scattare in piedi un pubblico arcibisognoso di certezze attoriali e divi nostrani. Il riferimento è indirizzato al seppur validissimo Toni Servillo.
Una seconda visione di Non pensarci non c’è ancora stata mentre quella de La ragazza del lago (vista la super distribuzione e lo sproporzionato favore mediatico ottenuto dalla pellicola) è stata pressoché inevitabile. Il giudizio sul film rimane quello della prima visione mentre per Non pensarci il commento rimane sospeso, anche se restano le impressioni della prima visione.
Comunque sia, è un dato di fatto che il nuovo cinema italiano (perché quello presentato a Venezia ’07 era il cinema dell’ultima generazione) è uscito dalla Mostra come un uomo di cinquanta chili finito sotto un Tir. Il Lido era pieno di corone di fiori, di bare e di rassegnazione. I carri funebri scendevano le autostrade in un mesto ritorno con i giovani cadaveri a bordo: gli italiani lasciavano in silenzio un Festival peraltro fitto di bei film.
Nel silenzio della cerimonia funebre c’è stata Roma ma nessuno se l’è sentita di gridare al miracolo. Nessuno ha pensato che le valide proposte italiane fossero davvero i movimenti del morto. Nessuno si è azzardato a riparlare “bene” di cinema italiano. E per certi versi il silenzio soddisfatto della critica era abbastanza comprensibile. Perché se Giorni e nuvole di Soldini e La giusta distanza di Mazzacurati sono stati film da guardare volentieri e da promuovere col sette, non hanno portato con loro nessun barile d’acqua santada gettare, come in un temporale manzoniano, sulla nuova crisi del nostro cinema. Alle storie ben espresse e alle tematiche di tutto rispetto (il lavoro, nel primo film e l’integrazione razziale, nel secondo) non hanno corrisposto preziose innovazioni linguistiche, ottime per ottenere premi in un festival. Perchè, è bene ricordarlo, i premi nei festival, servono eccome: a volte sono i premi a dire se un film è bello o brutto, o se lo stato di salute di una cinematografia sia ancora buono. Soldini e Mazzacurati non hanno adottato schemi particolarmente inediti ed efficaci e le loro pellicole sono rimaste soltanto positive, interessanti, storicamente validissime e, volendo, perfette per dissetare il pubblico medio alto (altro limite) senza bollicine, conservanti, e aromi innaturali. I due film italiani in concorso a Roma non hanno mostrato quella tecnica necessaria per portare al cinema i giovani, tanto avulso era il loro linguaggio dalla cultura dell’immagine rumorosa, convulsa, breve e accesa dei giovani stessi. Hanno prodotto il solito cinema per adulti, nel senso migliore del termine, o per qualche liceale più dotato degli altri, che va al cinema magari in compagnia del professore, per una domenica diversa. Da brave persone.
Inverno ‘07/08 ancora grigio e luttuoso, dunque, disabitato di speranze soprattutto quando, sulla via di Berlino si leggeva di un isolatissimo, sardissimo e imponente Sonetàula: invitato con eleganza nella capitale europea e subito rinchiuso (con onori) nella sezione “Panorama” del Festival. Parole positive e distaccate per un film ambizioso, ma dilatato e troppo ossessionato dalla forza dei suoi padri: Banditi a Orgosolo e Padre Padrone. Ma guai a dimenticare Mereu, visti il suo impegno, la voglia, la serietà, e la cura del suo prodotto. Sei e mezzo al regista, ma meglio la genuinità densa di Ballo a tre passi: l’esordio di un autore che va seguito ancora con grande attenzione. Insieme alla schiera, preparata e agguerrita, dei suoi “amici” isolani, eterogenei, indipendenti e modernamente sardi: l’ottimo Pitzianti di Tutto torna, il giovane Marcias di Un attimo sospesi, il tosto Pau di Jimmy della collina).
La morte, però, continuava a soffiare su un inverno freddo e pieno di neve. Tanto e sofferta che le urla di Carmine Amoroso (Cover Boy), di Giorgio Diritti (Il vento fa il suo giro) e del giovanissimo Toni D’angelo (Una notte) sembravano suoni prodotti dal vento e nessuno aveva osato utilizzarli per riprendere a parlare di energia cinematografica italiana. Qualche urlo l’aveva tirato pure l’elegante Grimaldi (Antonello, intendiamoci) ma la voce del suo sensuale Caos Calmo era troppo borghese e troppo ben vestita per essere credibile. Più acuti i suoni lanciati dall’acido Virzì, stavolta più grottesco del solito, ma il suo invito ad andare a vedere il cuore del sepolto non era stato preso troppo sul serio, visti i toni da commedia che poi, quando passano gli anni, tutti se li vanno a riascoltare e stupendosi di quanta bella voce ci fosse dentro.
Insomma, nevicava che Dio la mandava. Eppure sotto quella neve il presunto defunto aveva ripreso a muoversi e si stava organizzando per una rumorosa, insospettabile e ben remunerata rinascita.
Un certo Nicola e un certo Domenico, Mr. Giuliano e Mr. Procacci, avevano segretamente richiamato a lavorare i super talenti Matteuccio e Paolino: “l’imbalsamatore” di spettatori e “l’uomo in più” dell’ultima generazione. Garrone e Sorrentino. Come manager ambiziosi ed incazzati, come grandi allenatori di registi di talento, li avevano guardati negli occhi e gli avevano spiegato che era tempo di cambiare, che qualcosa di grosso si poteva e bisognava fare.
Garrone e Sorrentino ci sono stati e avevano l’età giusta (e l’esperienza accumulata) per fare tombola, strike e bingo. Il terreno era tanto ripido e friabile quanto fertile e riposato: bisognava arare e seminare. A concimare ci avrebbero pensato i produttori, con campagne pubblicitarie ben congegnate e la messa a disposizione degli aratri di lavoro più opportuni.
Durante i nuovi e lunghi funerali del grande morto, questi quattro uomini di cinema hanno ripreso a lavorare e si sono dati appuntamento per un simbolico e costruttivo duello durante il maggio francese che sarebbe venuto, senza barricate, per carità, anzi con uno smoking fascinoso e irriverente. A loro si era aggiunto, strada facendo, un giovane timido e silenzioso, un ragazzo moro e serio a cui Venezia aveva già battuto le mani quando aveva presentato l’ottimo, secco e al dente Saimir: Francesco Munzi.
Dopo le esequie settembrine regnava il silenzio cupo, e durante la triste quiete autunno/invernale si procedeva nell’oscuro e duro lavoro. Dopo Natale e la sua solita discarica di panettoni incassanti e inquinanti, le prime voci, (fiacche come quelle degli incubi senza corde vocali) avevano cominciato a sussurrare di due film in lavorazione su temi forti, anzi fortissimi: qualcosa dal libro di Saviano e un film su Andreotti. Roba da prestargli attenzione, da mettere da parte i pensieri sul lutto e a andare a guardare da vicino, se non altro per vedere come va a finire. Rischi? L’estetizzazione, lo stile prima del suo rapporto col contenuto, il realismo fasullo, il compiacimento estetico, il movimentismo di macchina, il gangster movie imitato, l’autorialismo sterile, la paura di cavalcare la tigre di un cinema veramente deciso e scomodo. Speranze? Il talento non comune di Sorrentino e Garrone, perché a riguardare L’uomo in più, L’imbalsamatore, Le conseguenze dell’amore, Primo amore, questi due ci sapevano fare parecchio.
Quando si è arrivati a una rassegnata e curiosa primavera ‘08 si è cominciato a parlare di Cannes e dai corridoi della Indigo film e da quelli della Fandango, filtrava un trattenuto, ma deciso ottimismo. Che in poco tempo sarebbe diventato venticello piacevole, inaspettato e nuovo: entrambi i film alla croisette, entrambi in concorso. Uno si chiamava come il grande libro da cui era tratto: Gomorra, e l’altro si intitolava Il Divo, ironizzando su uno dei nomignoli con cui veniva definito Giulio Andreotti. Nelle sale della cittadina francese sono esplose due bombe che hanno procurato lunghe sequenze di applausi, pagine di complimenti e due premi quasi uguali, insperati, benvenuti e benedetti.
Il romano e il napoletano si sono affacciati dal balcone di Cannes con orgoglio, consapevolezza e soddisfazione, e accanto a loro si è messo a guardare fiero l’orizzonte anche il giovane Munzi de Il resto della notte. Poco importava che quest’ultimo girasse il collo verso il Nord del paese, al contrario di quello rivolto a Sud di Garrone e di quello, impegnato nelle stanze più oscure de
lla nazione, del regista de Il Divo. E poco importava che il film di Munzi non fosse in concorso, ma figurasse nella sezione Un certain regard.
Gli occhi dei tre ragazzi italiani guardavano fissi verso le realtà controverse e infette del nostro paese e osservavano decisi le terre e i problemi della nostra Italia.
Munzi teneva fede al suo cinema capace di osservare dall’interno la condizione della peggio immigrazione e in più di una circostanza parlava con immagini di maestosa forza. Garrone partiva dalla realtà e la trasformava in linguaggio cinematografico potente e penetrante; Sorrentino tirava nel suo cinema fluido, acrobatico e formidabile, la solidità storica di Andreotti: personaggio politico e cinematografico insieme.
Insomma, a Cannes ’08, il cinema e la realtà avevano finalmente fatto pace, e la rivoluzione, o la rinascita, per far contenti i cassamortari della critica, era soprattutto linguistica, laddove per linguaggio si intende il rapporto più sano tra cose da dire e modo per farlo.
Le palme e la gente in sala: il massimo della vita. Nanni Moretti non era più il mago di questa preziosa alchimia. Che beffa per i medici legali, ora tutti sul carro dei vincitori a parlare del grande cinema italiano, quello che si è ripreso il suo posto nel mondo. E allora via a ricitare il Neorealismo, a richiamare in causa le lezioni di Rosi, Petri, Fellini, Rossellini e via dicendo.
Dopo Cannes sembrava finalmente fatta. Il corpo del cinema italiano era sparito dalla tomba e la sua anima volava leggera sopra sale piene di gente e pagine di giornale piene di elogi. Camorra, politica, immigrazione e grande cinema. Che bello, tutti al mare! Registi, attori, produttori, critici e spettatori. Ognuno soddisfatto.
A Venezia ’08 si attendeva l’angelo che scendesse a chiederci perché cercassimo ancora tra i morti colui che era vivo. Ma lo spirito celeste, per fortuna nostra, non è arrivato a scassarci la visione con questa inutile, ripetitiva e stupida ossessione.
Non lo ha fatto per due motivi: 1) perchè i film degli altri non erano meglio dei nostri, anzi, 2) perchè i film italiani non avevano rischiato molto e non avevano gettato alle ortiche quanto fatto, pochi mesi prima, dai più giovani e dotati colleghi.
Se i nostri film (in concorso) non hanno rispedito il cinema italiano all’inferno non possiamo certo dire che abbiano imposto alla santa creatura con le ali di scendere con un lieto messaggio di conferma.
Il fatto è che Paolo Sorrentino e Matteo Garrone hanno lavorato sul linguaggio prima che sui temi e il loro cinema è nuovo perché lega una lingua chiara, personale e piacevolissima da ascoltare, a tematiche di peso e pubblica importanza. Nel giochino critico da quatto noiosi soldi, invece, ci si dimentica che prima di essere italiano, cinese o turco, un regista è un uomo d’arte, una creatura creativa che si esprime con immagini e parole.
Se non c’è traccia di un linguaggio nuovo da Cannes in poi è perché chi è sceso in campo a Venezia è roba di qualche anno fa e non possiamo pretendere che scendano gli angeli a dirci quanto siamo bravi, se in concorso mettiamo nomi che conosciamo da almeno dieci anni e che non hanno rivoluzionato il cinema italiano nemmeno quando avevano la gioventù dalla loro.
Pupi Avati ha fatto un film dei suoi, con la “Storia” che fa, per citare il regista stesso, da colonna sonora al film. Il papà di Giovanna crea atmosfere e conduce al suo interno ma quando le vicende storiche si avvicinano troppo al film, il cortocircuito è immediato e la pellicola puzza come il cadavere di Ezio Greggio sdraiato sull’autobus.
Il film di Bechis è il più importante dei quattro, ma di italiano non ha il paesaggio culturale. La questione degli indios confusi che stuzzicano i latifondisti transgenici è la metafora dell’agonia di ogni cultura minoritaria e di quanto il modello consumistico abbia già vinto anche laddove gli ultimi eroi sono pronti a resistere.
Ozpeteck, per carità, trasforma un bel romanzo in qualcosa che zoppica fino a sfracellarsi nella confusione, in una storia che non è corale e non è paradigmatica. Gli attori sono bravi e tutti gli arredi del film funzionano, ma alla fine mancano informazioni concrete sui personaggi e l’accoppiata sceneggiatura/regia sembra davvero un gran pasticcio.
Alla fine ne esce benino il bizzarro Corsicato con Il seme della discordia,che non racconta nulla, ma che quel nulla lo racconta straordinariamente bene. Film leggero, più divertente che irritante, poco italiano in senso positivo, con la Murino che diventa un’opera d’arte chiara e sorridente.
La lezione di Cannes, insomma, non ha dato, sinora, frutti saporiti e la rivoluzione è ferma. Ma le lezioni, si dovrebbe ricordare, servono ai nuovi e di giovani in concorso a Venezia non ce ne erano tanti, anzi!
In questo limbo cinematografico, per fortuna poco maltrattato, si è andato ad infilare il pellicolino da promuovere. Chi ha visto Pranzo di Ferragosto ha incontrato un film carico di semplicità. Chi lo ha fatto dopo Venezia deve aver sperato nell’incontro con un’opera gioiello e può anche aver provato delusione per la magrezza, armonica ma forse eccessiva, di questo minuto esordio italiano.
Chi non lo ha visto ne ha sentito parlare, tanto e bene, da un passaparola “innaturale”. Già, perché Pranzo di ferragosto, film acciuga e simpatia di una mostra veneziana pigra e sottotono, si è infilato come un bel bicchiere di acqua fresca nei palati impolverati di critici in fuga da bomba irachene (Catherine Bigelow) e da guerre di indios confusi contro latifondisti senza scrupoli (Marco Bechis).
Senza Venezia, probabilmente, il film sarebbe uscito in qualche piccolo cinema metropolitano e sarebbe durato una settimana o forse due. Gli elogi del Lido, invece, lo hanno trasformato in qualcosa di speciale, in un frutto pieno di sapore da assaggiare a tutti i costi.
Negli stessi giorni della mostra, causa l’assenza di grandi divi e grandi film, qualcuno aveva parlato della crisi dei festival come luoghi capaci di cambiare le sorti di un film. Chi scrive non la pensa così e per Pranzo di ferragosto, per esempio, è accaduto esattamente il contrario: il film è stato letteralmente baciato dalla Mostra.
Ora siamo di fronte all’enigma romano: leggiamo che la sezione “Premiere” della Festa del cinema di Roma (chiamata nell’altro modo a cui ci abitueremo) vanta cinque titoli italiani. Non sappiamo se essere felici o preoccupati. La sensazione è che abbiano preso tutto ciò che c’era in giro e lo abbiano tirato dentro per dare una dimensione molto nostrana alla rinnovata kermesse romana. Adesso ci teniamo questo inquietante enigma fino all&rs
quo;inizio di novembre, perché se è vero che Winspeare e Vicari hanno già dimostrato di essere autori affidabili, è altrettanto vero che non sono ancora diventati autori popolari (in senso buono) o di respiro internazionale. Sugli altri incrociamo le dita: Matteo Rovere (Un gioco da ragazze) ha girato corti lucidi e adatti a vasti strati di pubblico, ma del suo rapporto col lungo non possiamo saperne. Di Maria Sole Tognazzi ricordiamo con simpatia il suo esordio, Passato prossimo, ma parliamo, ormai, di sei anni fa. Su Brando De Sica che dire, vogliamo essere ottimisti anche se il titolo (Parlami di me) non sembra tanto incoraggiante.
La rivoluzione si è fermata dov’era cominciata ma esiste. Non vogliamo saperne più di morti e rinascite ma siamo sicuri che quanto accaduto a Cannes sarà raccolto da giovani capaci. Il segreto è non solo forma e non solo contenuto. Ma stile, linguaggio, personalità e tematiche importanti. Una lezione antica come la nostra tradizione cinematografica, ma mai facile da mettere in pratica.