Considerando l’insieme del programma il concetto di resistenza sembra attraversare a più livelli questa 34esima edizione del Cinéma du Réel. Era nelle sue intenzioni?
Il programma di quest’anno l’ho pensato e l’ho costruito effettivamente in questo senso. In un primo tempo avevo perfino preso in considerazione l’idea di scegliere un trailer con le mani di una donna anziana in atto di prendere, ad uno ad uno, i pezzi di una pistola posati su un tavolo e di montarli. Ho finito per scartarlo perché mi è parso eccessivamente violento per la Francia, specialmente in questo periodo, ma te ne parlo per mostrarti fino a che punto avessi a cuore questa tematica. In questo senso la sezione storica “Combattants” curata da Nicole Brenez riflette pienamente quest’interesse, interesse che si ritrova anche nella scelta di Federico Rossin di mettere insieme un programma dedicato al cinema militante italiano degli anni settanta. Ovviamente è più semplice progettare una retrospettiva sulle lotte degli anni sessanta e settanta perché quelle erano, in parte, delle vere e proprie guerre civili mentre oggi il nemico che divide la società è, in un certo senso, invisibile, e questo rende più arduo il compito di unirsi in una lotta comune.
Quello della crisi economica é un fenomeno alquanto complesso, di conseguenza anche per i cineasti diventa difficile girare dei film che siano realmente operanti rispetto alle questioni che affliggono la società di oggi. Esistono, in fin dei conti, delle immagini capaci di influenzare, di cambiare il corso di una crisi? Ci si può forse servire di questo tipo di cinema per risvegliare la solidarietà locale fra la gente ma anche questo resta da dimostrare.
Un film militante come Tous au Larzac di Christian Rouaud – tanto per citare un esempio recente – sulla lotta negli anni ’70 di un gruppo di contadini e di pastori contro la minaccia di espropriazione delle loro terre da parte dell’esercito francese – ha avuto qui un grande successo di pubblico; ci si può rallegrare ma si può anche diffidare di questo tipo di reazioni. Spero che a questo entusiasmo facciano seguito dei fatti concreti, ma questo lo vedremo assai presto, penso, in occasione delle elezioni presidenziali…
La Francia gode ancora di un tipo di situazione privilegiata che fa pensare ai più che la crisi si trovi altrove e che non toccherà mai questo paese; ovviamente è un’illusione. La precarietà esiste già anche qui e può colpire chiunque, ad ogni istante, che si tratti della classe operaia o di quella media.
Quali sono le altre caratteristiche salienti del programma di quest’anno?
I cineasti che abbiamo scelto di programmare costruiscono il loro discorso partendo da due premesse di fondo: la loro propria esperienza ed uno sguardo sano, giusto e rispettoso nei riguardi del loro soggetto. Questi cineasti hanno compreso che essere ‘giusti’ rispetto alle loro immagini è, al giorno d’oggi, un gesto politico; il loro impegno si manifesta in primo luogo attraverso un’esigenza assoluta al livello della forma e della narrazione.
Inoltre nessuno dei film selezionati proviene da una produzione ricca; sono state tutte delle opere difficili da realizzare tanto per i loro autori che per i loro produttori.
Ovviamente nell’insieme delle nostre proposte ci sono dei lavori più fragili, ma si tratta sempre di film che sono stati portati a termine con coerenza e rigore, dei progetti spesso lunghi e testardi, nel buon senso del termine.
Habiter/Construir di Clémence Ancelin per esempio non è un film militante in senso stretto, ciononostante ci troviamo di fronte ad una cineasta che ha uno sguardo autentico, un vero proposito ed un’ostinazione senza pari. Clémence Ancelin filma la costruzione di una strada in Tchad misurando il suo impatto sulla vita del luogo senza alcun tipo di compiacimento; non c’è un unico gesto in questo lavoro che possa essere considerato come un atteggiamento alla moda. Attraverso il suo rigore la regista riesce a trovare la distanza adeguata rispetto alla gente che filma ed al loro mondo. Era da molto tempo che non avevo visto una cineasta europea capace di filmare in Africa con una tale autenticità e giustezza. Ecco per me, questo è un film che racconta una forma di resistenza.
Il cinema documentario spesso ci fa viaggiare, i luoghi rivestono un’importanza cruciale; questa dimensione sembra essere essenziale nell’edizione di quest’anno…
Considerando l’insieme dei film programmati direi che si può constatare un interesse spiccato dei cineasti per dei luoghi ben precisi. Tutti riescono felicemente ad evitare la trappola in cui è spesso incorso il documentario in questi ultimi tempi cioé di pensare che il mondo possa essere presentato e rappresentato con una visione ingenuamente globale. Al contrario gli spazi su cui si focalizza la loro osservazione sono degli spazi limitati in cui la dimensione fisica e quella mentale spesso si fondono senza soluzione di continuità. Lo spazio diventa inoltre per chi ci abita e ci lavora un luogo di riscatto e di rinascita.
In Two years at see lo spazio in cui Ben Rivers si ritrova con il suo protagonista Jake – un uomo anziano che vive solo nella sua fattoria isolata in mezzo ai boschi – è un luogo intimo. Nella sua materialità priva di ogni iperrealismo l’esplorazione di questo luogo si trasforma in un viaggio nell’immaginario e nel sogno immergendoci inavvertitamente in una sorta di estasi prolungata.
Anche in Le camp di Jean Frédérique de Hasque il soggetto del film è uno spazio ben definito: un vecchio campo di rifugiati ormai completamente abbandonato dalle ONG. A partire da quest’area limitata in cui la gente continua a vivere nell’impossibilità di ritornare nel proprio paese Le camp ci mostra come, pian piano, un luogo di vita provvisorio si converta in un vero e proprio villaggio. Seguendo i tragitti quotidiani di alcuni abitanti il regista riesce, con delle piccole pennellate, a raccontare un mondo in sè senza mai cadere nell’aneddoto. La descrizione di questo microcosmo, di quest’organizzazione di sopravvivenza e di resistenza risponde all’esigenza di mostrare una situazione di crisi dall’interno, senza falsa retorica.
Ciò che colpisce particolarmente sono i nessi, la circolazione di idee che si viene a tessere, il dialogo che si viene ad instaurare fra un film e l’altro. Come si é venuta strutturando la programmazione ?
Direi in primo luogo che il vantaggio di non avere un ego smisurato mi permette di riconoscere in alcune persone degli echi, delle corrispondenze fra il mio pensiero ed il loro. Nicole Brenez e Federico Rossin che hanno rispettivamente curato le sezioni (dire quali) sono delle persone che mi hanno dato il coraggio di portare avanti quelle che erano le mie intenzioni originarie; in questo modo che le ipotesi sull’essenza del programma si vengono a concretizzare in maniera naturale senza venire sottolineate espressamente.
Durante i primi giorni di ogni festival sono sempre molto ansioso; è un po’ come organizzare una grande cena, i film sono esposti come dei cibi su un tavolo ed io mi auguro semplicemente gli spettatori arrivino a stabilire delle connessioni fra un lavoro e l’altro accoppiando, per cos&igr
ave; dire, un gusto con l’altro…
Le ‘passerelle’ da un’opera all’altra sono pensate ma non vengono mai proposte esplicitamente. Quello che più mi affascina nel mio lavoro è nutrire il programma, in fase di preparazione, con una serie di ipotesi e constatare pian piano, durante la manifestazione come quei pensieri, quelle piste che avevamo abbozzato riemergano spontaneamente nella lettura che ne fanno gli spettatori.
Ho trovato molto originale l’idea del programma presentato graficamente su un foglio di carta come un origami che, una volta piegato, da luogo ad una piccola cinepresa. Cosa ha motivato questa scelta?
Da quando sono arrivato al Réel, quattro anni fa, ho sempre voluto trovare una corrispondenza grafico-visuale al programma; l’origami è un po’ un gadget ma anche un bel ricordo del festival, inoltre già da tempo avevo veramente voglia che qualcuno ci costruisse una cinepresa di carta, penso infatti che proprio in un momento in cui la pellicola è in via di estinzione sia importante ritrovare l’aspetto della materialità nel fare cinema.
Il programma del Réel é ben strutturato e leggibile, con una serie di sezioni competitive snelle e chiaramente definite che favoriscono notevolmente la visibilità dei film; una politica vincente direi….
La struttura del festival rispecchia la scelte fatte al livello della programmazione; la cosiddetta ‘selezione’ fa per me parte integrante della programmazione e ciò favorisce la leggibilità della nostra proposta.
Ci sono dei festival in cui la selezione dei film in concorso non rispecchia minimamente la programmazione della manifestazione nel suo insieme; questo é un modo di fare che non m’interessa. Per me è molto importante trovare un buon equilibrio fra i film recenti in competizione e quelli che costituiscono la materia storica delle varie retrospettive.
Il Cinéma du Réel ha inoltre la fortuna di non essere associato ad alcun mercato del film; i professionisti del settore vengono al festival, direi, quasi a titolo personale.
Giusto poco prima de Réel ha luogo un grande mercato internazionale il FIPA che riunisce i professionisti dell’audiovisuale e giusto dopo il Réel c’è il festival di Nyon, in Svizzera che sta ampliando la sua sfera di attività diventando un vero polo d’attrazione per tutti coloro che vogliono presentare dei nuovi progetti al mondo della produzione.
Per quanto mi riguarda sono veramente contento di non avere ereditato questo tipo di attività quando ho preso in mano la direzione del festival!
Ritengo che questi siano due mestieri ben distinti; alcuni anni fa si potevano ancora associare abbastanza facilmente ma oggi richiedono ormai un savoir-faire altamente specializzato e mettono i festival davanti al compito, molto delicato, di presentare questi due aspetti congiuntamente senza perdere di vista né la proposta artistica da un lato né le esigenze del mercato ed il contatto con i professionisti dall’altra.
L’esempio più lampante in questo senso è l’IDFA di Amsterdam; io l’ho conosciuto ancora quando era senza mercato o, per essere più precisi, quando il mercato non aveva ancora le dimensioni e la struttura odierna. Sono profondamente convito del fatto che l’IDFA nel corso degli anni abbia perso, proprio per questo motivo, molta della ‘giustezza’ della sua programmazione.
Un festival dovrebbe poter trovare un equilibrio fra le sue proposte artistiche da un lato ed un’offerta adeguata ai professionisti dall’altro. La presenza di un mercato non deve essere il solo modo per stabilire un dialogo con la professione. Per esempio gli atelier e le giornate professionali che il Réel propone sono, a mio avviso, interessanti anche per i cineasti, per i produttori o per la gente della televisione.
Qual è la specificità, l’identità del Cinéma du Réel?
La specificità del festival consiste nel fare dialogare dei film appartenenti al patrimonio storico – dei film in sé alquanto differenti – con la creazione cinematografica contemporanea, anch’essa intesa nella sua molteplicità, ampliando il più possibile la riflessione intorno al concetto di cosa é il documentario. Rispetto ad altri festival possiamo permeterci qui al Centre Pompidou il lusso di proiettare dei film in 16 mm e di farlo in condizioni ottimali. Non ci sono molti altri festival della nostra taglia in grado di farlo!
Cosa si augura per il futuro del Cinéma du Réel ?
Riuscire a continuare ad esistere è quanto auguro non solo al il nostro festival, ma anche a tutti gli altri festival che sono sulla nostra stessa linea. Dappertutto in Europa non solo in Grecia ma anche in Portogallo, in Italia ed anche qui in Francia che la crisi economica tocca nel vivo i festival; questa crisi può essere vista anche come un’opportunità che ci impone di essere più esigenti e più giusti rispetto a quello che scegliamo di mostrare ed al modo in cui organizziamo la manifestazione.
Al giorno d’oggi i festival che sono un po’ a cavallo fra una proposizione editoriale forte ed una proposta più eminentemente commerciale si vedranno costretti ad optare per una sola di queste possibilità.
Il Cinéma du Réel ha già scelto la via di un progetto editoriale forte, senza concessioni; probabilmente le annate a venire saranno difficili; io, comunque, continuo ad essere ottimista perché abbiamo una grande capacità di adattamento, siamo un po’ come i “topi” del documentario, ma un “topo”, si sa, è assai difficile da uccidere!