La sezione Front(s) Populaire(s) ci rimanda ad una concezione del documentario come strumento di una presenza attiva nel mondo, come una tribuna aperta alle rivendicazioni, da non confondere con cinema militante tout-court….
Quando Christian Borghino, il mio collaboratore più stretto, ed io abbiamo pensato alla sezione Front(s) Populaire(s), volevamo revendicare la dimensione politica del cinema.Il cinema documentario contemporaneo può essere engagé e politico senza per forza essere militante, proprio per questo abbiamo scelto come punto di riferimento una tematica, in un certo senso, filosofica; quella del potere delle immagini.
In questa sezione abbiamo proposto dieci film che si articolano, per riprendere i termini di George Didi-Hubermann, intorno all’”inquietante potere delle immagini” e alla “capacità delle immagini ad inquietare il potere”.Volevamo creare una sezione che facesse presa su quanto succede oggi, nel presente. In fase di preparazione, ad un certo punto, avevamo messo insieme una programmazione estremamente teorica. Ci siamo resi conto di avere perduto, cammino facendo, quanto cercavamo all’inizio e cioè una riflessione attraverso il documentario su quanto avviene nel mondo d’oggi ma in un modo concreto, non teorico, né filosofico.
É stato un processo molto laborioso, alla fine penso che siamo riusciti a mettere insieme un corpus di film che oltre ad avere un indubbio valore estetico, corrisponde anche alle nostre intenzioni.
Per me il cinema è politico. Questa era un’altra delle idee alla base della concezione del festival. Il punto comune del programma dedicato a Yolande Zaubermann e di quello dedicato a Kevin Jerome Everson, per citare solo un esempio, è la loro essenza politica. Per noi era importante mettere in avanti quest’aspetto senza reticenze. Quando dei termini diventano un po’ desueti, fuori moda, si ha la tendenza a metterli da parte. Il linguaggio è in questo senso rivelatore: se ci sono delle parole che non si vogliono più utilizzare, ciò significa che ci sono delle idee che non si vogliono più pensare!
Il secondo grande asse intorno a cui si articola la parte non competitiva del festival è una sezione dal titolo: Fabriquer le cinéma. Cosa ha motivato questa scelta?
Volevo mostrare dei cineasti al lavoro. Abbiamo deciso di mischiare dei film contemporanei con dei film più di vecchia data.La sfida era per me quella di fare una programmazione su dei film che mostrano dei cineasti al lavoro senza servirmi delle due famose collezioni televisive francesi di André Labarthe: Cinéastes de notre temps (1964-1972) e Cinéma de notre temps (1988).
Nonostante io le apprezzi molto, queste collezioni sono già state mostrate spesso in vari festival in questi ultimi anni, anche il Centre Pompidou ha dedicato loro una retrospettiva integrale. Decidere di integrarle nel programma avrebbe significato escludere vari film su questo soggetto che ritengo particolarmente significativi.
Ho deciso di mostrare due soli episodi delle collezioni Cinéastes et cinéma de notre temps quelli filmati da Laurent Achard, un regista che stimo in modo particlare. Questi episodi sono: Un, parfois deux dedicato a Paul Vecchiali e Brisseau, 251 Rue Marcadet, dedicato a Jean Claude Brisseau .
Un altro elemento tassello importante di questo programma è quello di Cinéma, cinémas, una trasmissione straordinaria trasmessa durante un decennio (1982–1991) dalla televisione francese e creata da Clade Ventura, Anna Andreu et Michel Boujut che ha formato tutta una generazione di telespettatori. Mi sembrava importante rendere omaggio a quest’emissione mostrando ‘Lettre d’un cinéaste’ una serie di 14 cortometraggi creati ad hoc per l’emissione da vari registi fra cui figurano, solo per citarne alcuni, Chantal Akerman, Raul Ruiz, Alain Cavalier e Otar Iosseliani.
Forse la mia decisione d’includere delle opere create per la televisione in un festival di cinema può sembrare a prima vista una contraddizione in termini, ma io amo molto le contraddizioni!
La proiezione in anteprima e nella sua totalità di Le Village, la serie documentaria di Claire Simon (18 episodi di 30 minuti) dedicata à Lussas, il famoso villaggio dove, da 30 anni a questa parte, ha luogo il festival Les états generaux du documentaire, era un evento particolarmente atteso….
Le Village è un evento di spicco nel mondo del documentario. Per me Claire Simon è una delle più grandi cineasti francesi; ha una capacità unica di rimettersi in questione da un progetto all’altro, di cambiare completamente le carte in tavola, di modificare e trasformare il suo metodo di lavoro per sperimentare nuove strade senza mai temere di prendere dei rischi.
Claire Simon sta lavorando da molto tempo alla creazione de Le Village. In questo momento il progetto si trova nella sua fase finale ma ha richiesto dei tempi di rodaggio molto lunghi; sostenuta nella produzione da Cine plus, questa serie televisiva che prevedeva all’origine un insieme di sei episodi, ne conta oggi dodici.
Quest’impresa folle si è potuta realizzare solo grazie alla partecipazione entusiasta e tenace di molte persone che hanno creduto in quest’avventura e l’hanno sostenuta dall’inizio alla fine.
Oltre al suo valore artistico, la serie documentaria di Claire Simon non poteva mancare dalla programmazione del festival anche per il suo soggetto; puntando la sua cinepresa sull’azione di Jean-Marie Barbe, fondatore degli États généraux du film documentaire, alle prese con la creazione di Tënk, una nuova piattaforma on-line dedicata al cinema documentario d’autore e la costruzione di nuovo edificio multifunzioni a Lussas, Claire Simon c’invita a penetrare nel cuore stesso della prassi lavorativa di un festival che deve confrontarsi con la dura realtà dei finanziamenti e la gestione complessa delle relazioni con le istituzioni.
Una prima valutazione a fine festival ?
Facendo un primo bilancio a caldo direi che il pubblico è stato puntuale a questo appuntamento; abbiamo avuto moltissime sale piene, la retrospettiva sui film di Yolande Zauberman è stata un vero successo e per la serata di chiusura c’era talmente tanta gente che abbiamo dovuto aprire una seconda sala! Anche la retrospettiva dedicata a Kevin Jerome Everson, che consideravo una vera sfida trattandosi di un cineasta che proviene dal mondo dell’arte contemporanea, ha incontrato un vivo interesse da parte del pubblico.
Per quanto riguarda il pubblico professionale devo ammettere che essere a Parigi non facilita particolarmente il nostro compito perché tutte queste persone continuano ad essere occupate con il loro lavoro durante il festival per cui non è facile convincerle a partecipare, nonostante ciò, le sessioni speciali dedicate loro in mattinata erano piene.
Il festival voleva anche offrire ai cineasti, che lavorano spesso completamente da soli, l’opportunità di conoscersi, di scambiare delle idee e di creare dei legami, anche quest’aspetto mi sembra si sia sviluppato in modo molto soddisfacente. Nell’insieme direi che c’è stata molta circolazione e molta vita in tutti i luoghi del festival e questa è per noi una vera soddisfazione.
Come immagina la prossima edizione?
Mi piacerebbe molto poter organizzare degli incontri sul patrimonio del cinema documentario perché nelle manifestazioni dedicate al cinema del passato il documentario non è particolarmente curato, eccezion fatta per i documentari che trattano della storia del cinema.
Una grande parte del patrimonio cinematografico documentario non viene valorizzata in modo specifico. Nicolas Philibert, per esempio, ha passato sette anni per restaurare l’insieme dei suoi film ma nessuno ne è al corrente! Tutti i film di Jean-Daniel Pollet, fra cui i suoi documentari, sono appena stati restaurati da Gaelle Techer e anche Claire Simon ha già restaurato alcuni dei suoi film.
Il Cinéma du Réel potrebbe essere un luogo dove tutto ciò acquista della visibilità e viene valorizzato.
Quest’anno abbiamo già abbordato questo soggetto: in collaborazione con la Cinématheque Suisse che fa un lavoro straordinario in questo ambito, abbiamo mostrato Les Apprentis (1964), il primo film di Alain Tanner e abbiamo organizzato una tavola rotonda su questo soggetto.
Non so ancora in che modo potrà svilupparsi quest’idea se sarà mostrando dei “work in progress” della restaurazione accompagnati dalle persone che ci lavorano oppure, più semplicemente, proiettando dei film documentari restaurati recentemente, tutto ciò dipenderà anche dai finanziamenti che riusciremo ad ottenere per questo progetto.