Da chi era composta l’equipe del film?
Solo da me. Ho fatto tutto da sola perché era imprescindibile avere un dispositivo leggero e flessibile. Ho girato con una cinepresa molto piccola, una GH4. Sarebbe stato impensabile di arrivare con un’equipe; la gente si sarebbe insospettita. Io stessa ho avuto molte difficoltà per farmi accettare e venire intergrata nel villaggio, se non fose stato per la presenza di mio padre che conoscevano, non mi avrebbero certamente mai permesso di filmarli come ho fatto. Anche per mio padre non è stato semplice ristabilire un rapporto con queste persone dopo tanti anni, figuriamoci cosa è stato per me: una figlia, che sbarca con la cinepresa!
Proprio per questo ho deciso di non filmare per niente durante dei lunghi periodi di tempo e di vivere semplicemente con loro, incontrando varie persone e spiegando loro cosa avevo intenzione di fare.
Si trattava anche e soprattutto di stabilire un rapporto di confidenza e di fiducia. Per me era fondamentale cercare di avvicinarmi a loro, capirli, comprendere la loro umanità al di là dell’idea che mi ero già fatta. Quando sono arrivata nel villaggio in cui mia madre e mio padre erano stati prigionieri durante quattro anni, mi portavo dietro tutti gli spettri che avevano popolato la mia infanzia. Pensavo di dovere odiare per forza tutte queste persone. Ben presto ho capito che per riuscire a fare questo film, dovevo riuscire a liberarmi dal mio desiderio di vendetta e dal senso di rigetto assoluto nei loro confronti. Se non lo avessi fatto sarebbe stato impossibile per me non solo filmarli ma anche riuscire a cogliere una certa forma di umanità che – nonostante tutto- portano in se.
A quanto pare e stando alle reazioni di chi ha visto il film, credo di esserci in parte riuscita; è solo alla fine del film che lo spettatore scopre chi sono in realtà questi personaggi. Prima di leggere i titoli di coda in cui viene svelata l’identità di questi individui chi guarda non sa se deve giudicarli….
Una delle qualità di questo film è proprio la tua capacità ad immedesimarti – nonostante il tuo punto di vista personale – con lo spirito e i sentimenti di tuo padre. Riesci ad essere la sua voce, i suoi occhi, la sua anima.
In effetti, la mia intenzione era proprio questa! Mio padre ha nei rapporti di tutte queste persone un rapporto molto ambivalente. Da un lato, ha una specie di empatia nei loro confronti. Sono dei contadini poverissimi. Per quattro anni sono improvvisamente diventati degli aguzzini. Alla fne del regime kmer sono ritornati ad essere dei nullatenenti. D’altra parte mio padre con i suoi vestiti da occidentale, la sua camicia i suoi pantaloni e via dicendo, dal punto di vista di queste persone, è molto privilegiato, é considerato ricco. In paese hanno cominciato perfino a chiedergli dei soldi!
Ho avuto bisogno di molto tempo per potere entrare, in qualche modo, nella vita del villaggio e stabilire con queste persone un rapporto capace di andare al di là di una rappresentazione codificata. Questo periodo di osservazione è stato cruciale.
Come si sono svolte le riprese in Cambogia?
Nella mia pratica artistica, l’aspetto sensoriale è primordiale. Ho l’impressione che in un film si riescano a suggerire molte più cose attraverso il suono, l’immagine e luce che attraverso le parole. Ho cercato semplicemente di seguire mio padre.
Le interviste che si vedono nel film sono tutte, se così si può dire, improvvisate. Mio padre camminava per strada, qualcuno lo invitava a prendere un caffè, entrava in una casa e si metteva a discutere con la gente. Io arrivavo in poco dopo con la cinepresa e mi sedevo naturalmente li con loro. Ogni volta tutto si è svolto così, in una sorta di free style! Durante il film ho sempre portato la cinepresa in spalla ad eccezione delle intervista in cui ho scelto di fare soprattutto dei primissimi piani perché penso che nella sensorialità dei volti filmati così da vicino si possa cogliere ogni sfumatura della loro espressione.
Il volto umano é una sorta di cartografia dell’anima di un individuo…
E proprio per questa ragione che ho scelto di filmare anche mio padre da vicino. Non si tratta di una semplice prossimità, è un’attitudine cha va molto oltre e nasce dal mio desiderio di permettere agli spettatori di vedere nei suoi sentimenti, nei suoi pensieri. Angkar non è un film “su” mio padre ma è un film “all’interno” di mio padre. Proprio per questo l’idea di fare dei flash back a Parigi era importante per me perché penso che per mio padre anche la sua seconda identità, quella francese, sia altrettanto importante. Mi rendo conto che in tutto questo c’è anche molta banalità: al giorno d’oggi dappertutto in Europa c’imbattiamo quotidianamente in masse di rifugiati di cui ignoriamo gli orrori che possono avere subito.
Quando, per esempio, la gente a Parigi vede mio padre fare la spesa in un supermercato pensa: “ecco, ancora un cinese!” nessuno é capace d’indovinare da dove venga. Questo anonimato in occidente rinforza la sensazione di solitudine, per questo ho deciso di girate tutti questi piani a Parigi in cui si vede mio padre camminare per strada solo senza parlare a nessuno. Per me era necessario mostrare il divario fra il suo anonimato, l’aspetto assolutamente prosaico della sua esistenza in Francia e tutto quanto ha dovuto subire nel passato.
In Angkar ci sono molti campi lunghi che ci mostrano il paesaggio rurale in Cambogia. Per te era importante potere situare tutte queste vicende nel loro ambiente naturale?
Durante il mio viaggio in Cambogia ho spesso provato la necessità di filmare il paesaggio, di trovare un po’ di apertura e prendere, di tanto in tanto, le distanze da mio padre e dalla sua vicenda in cui ero costantemente calata. Avevo bisogno di distinguere il mio proprio respiro e i miei propri pensieri da quelli di mio padre.
Ammiro la forza di cui hai fatto prova nel corso della realizzazione di questo progetto. Trovarsi di fronte a coloro che sono stati gli aguzzini del proprio padre non deve essere stato semplice…
Ammetto che ci sono stati dei momenti in cui mi sono sentita soffocare. In Cambogia non c’è stato, alla fine der regime Kmer, un confronto con tutti coloro che vi avevano preso attivamente parte, è come se nulla fosse accaduto ed proprio quello che dice ad un certo punto del film mio padre parlando con i ragazzi del villaggio; si domanda se non sia stato lui a sognare tutto quanto gli è successo…. Quando ci si trova in Cambogia si ha l’impressione che la vita sia trascorsa in questi anni come se non fosse mai successo nulla, come se niente avesse creato un taglio netto nel corso della storia del paese.
Un trauma di tali dimensioni, anche se non viene affrontato nello spazio pubblico, é pur sempre presente a livello psichico.
Si, putroppo è effettivamente così. In Cambogia la presenza della violenza nella vita quotidiana ha raggiunto un livello inquietante. La percentuale della violenza domestica è emorme. I genitori pichiano i figli perché loro stessi sono stati picchiati e hanno subito ogni tipo di violenza durante la loro infanzia. Nei villaggi è ancora peggio; la gente, per un nonnulla, prende un machete e si scaglia contro il prossimo. Comportamenti di questo tipo sono comunemente tollerati, considerati anodini.
Le tracce del passato Kmer sono presenti anche nel linguaggio corrente di oggi per parlare, per esempio, di un diploma di studi si usa un termine inventato dai Kmer rossi che significa “segnale perduto”. Un segnale perduto perché i Kmer erano radicalmente contro ogni forma di studio, per loro avere un diploma significava essere un individuo “perduto”. La gente continua ad utilizzare oggi questo tipo di vocabolario senza rendersi conto di riprendere l’ideologia Kmer.
Perché hai deciso di seguire tuo padre piuttosto che tua madre in questo progetto?
In un film si può raccontare tutto e niente al tempo stesso; ad un certo punto bisogna anche sapere cosa si ha voglia di raccontare. Avrei potuto aprire un’altra porta e parlare di mia madre ma avrei potuto aprirne un’altra ancora e parlare, per esempio, di mio fratello. La mia è stata una scelta molto chiara e ne assumo ogni responsabilità; ad un certo punto del film, come dicevo prima, il punto di vista è quello di mio padre.
Come ha reagito suo padre vedendosi sullo schermo?
La prima volta che si è visto nel mio film non è stato su un grande schermo ma sul mio computer: nonostante porti molto bene i suoi sessantanove anni, si è sentito vecchio. Vedendosi, ha preso coscienza del fatto che con il suo viaggio in Cambogia e con il film, per lui si è chiuso un ciclo importante della sua vita. Detto questo, la sua reazione è stata positiva; si è riconosciuto nelle immagini ma soprattutto si è riconosciuto nelle sue emozioni.
Un film come Angkar é molto importante perché interroga i protagonisti degli eventi storici. Se si pensa alla seconda guerra mondiale, per esempio, al giorno d’oggi restano ormai solo poche persone in vita capaci di testimoniare su quel periodo…..
In Cambogia durante il periodo Kmer ci sono stati fra 1.700.000 e 3.000.000 milioni di morti, le cifre variano secondo le statistiche, ma le persone ancora in vita e che sono sopravvissute a tutto ciò, si contano letteralmente sulle dita di una mano. Mi sembra inconcepibile! La generazione dei miei genitori, che ha vissuto il regime Kmer quando era molto giovane, sta invecchiando, molte di queste persone, con il passare del tempo si rinchiudono sempre di più in se stesse e non vogliono più parlare di tutto ciò. Dal mio punto di vista sento il malessere profondo di molti dei miei amici cambogiani della seconda generazione che vorrebbero saperne di più.
Che impatto pensi che un film come Anghar possa avere sui giovani cambogiani?
Angkar è stato presentato al Cambodia international film festival e molti giovani mi hanno contattato in seguito alle proiezioni dicendomi di volere a loro volta intraprendere un cammio di questo genere, chiedendomi come fare. Il mio film può forse aiutare gli altri a capire qualcosa di esseziale; il fatto che i propri genitori non vogliono parlare è un qualcosa che bisogna sapere comprendere e riuscire a rispettare ma bisogna almeno tentare di farlo, altrimenti ci si autocondanna al silenzio.
I giovani cambogiani devono cercare di stabilire un dialogo con la generazione dei loro genitori, devono trovare la forza di dire: “Capisco che tu non abbia voglia di parlarmene ma io ho bisogno di sapere perché la tua storia è anche la mia!”
Noi giovabni dobbiamo assumere questa responsabilità: non possiamo accettare che quest’assenza di memoria storica si basi sul silenzio dei nostri genitori. Non so più quante volte ho chiesto a mio padre di parlarmi del suo passato prima di convincerlo a farlo!
Mia madre invece non ha mai voluto parlarmi, questa è anche la ragione per la quale non la si vede nel film, però quando ha assistito alla prima proiezione si è messa a piangere e ha cominciato a parlare a tutti e a raccontaredi se, come non lo aveva mai fatto. Improvvisamente è crollata una diga!
La giovane generazione ha, in questo senso, una grossa responsabilità.
E proprio così! Questo film l’ho fatto in primo luogo per mia figlia che ha tre anni. Quando sono ritornata in Francia con tutto il mio materiale filmato non avevo ancora un produttore e mi sono detta, non importa, forse nessuno vedrà questo film ma almeno sarà lì per mia figlia e lei avrà per sempre una traccia della storia di suo nonno. Questo era il mio obiettivo.
Come hai lavorato al montaggio del film ?
Il montaggio si è svolto in due tappe; in un primo tempo ho montato tutte le immagini che si vedono nel film. Il processo è stato come quello di un puzzle che ho cercato di mettere insieme seguendo un filo cronologico ad un certo punto però mi sono bloccata e ho deciso che la presenza della mia voce in off era necessaria. Io stessa dovevo esistere, dovevo essere presente nel film, dovevo cercare di stabilire- all’interno del film stesso- una specie d dialogo con mio padre per rendere tangibile appunto quest’idea della trasmissione. Ho scelto di parlare come la bambina che sono stata e che parla partendo dalle sue fantasie: “…immagino la tua città che non ho mai conosciuto, immagino queste persone…” La voce in off è quella dI una bambina che è cresciuta nel silenzio di un passato immaginato. Questa voce in off è costruita come un contrappunto alle risposte di mio padre nel corso del film. Il film funziona da un punto di vista emozionale perché il pubblico può indentificarsi sia con mio padre che con me.
La cosa più sorprendente di Angkar è che, nonostante la durezza e la crudeltà del suo soggetto, la sensazione finale che il film ci lascia è quella, serena, di una conciliazione.
Quando la gente esce dal film è piena di “benevolenza”- mi ha detto il mio produttore. Non si prova della collera, né un senso di rivolta come ci si potrebbe aspettare da questo tipo di film. Nessun film aveva trattato finora gli orrori della Cambogia in questo modo. Penso che fosse necessario.