La direzione del Cinéma du Réel, appuntamento essenziale del mondo documentario, giunto quest’anno alla sua 36esima edizione, è in mano a una nostra connazionale: Maria Bonsanti. Dopo avere co-diretto per varie stagioni il Festival dei Popoli a Firenze, un anno fa Maria Bonsanti, piena d’idee e di nuove energie, ha preso li comando di questa prestigiosa manifestazione ed è stato subito un successo! Dopo un primo periodo di presa “di coscienza e di conoscenza” delle dinamiche del Festival, la direttrice affronta questo suo secondo mandato con grande consapevolezza dando prova di una forte sensibilità estetica, di uno sguardo attento e di un indubbio talento di mediazione fra le esigenze delle diverse strutture che sostengono la manifestazione. Maria Bonsanti ha dato vita, a piccoli passi, ma con determinazione, a una serie di innovazioni che aprono il Cinéma du Réel nuovi fruttuosi orizzonti.
Una delle priorità della direttrice continua a essere quella di conferire al programma una grande leggibilità; il corpus vibrante e multiforme delle opere che ci viene proposto è a misura d’uomo. Come Maria Bonsanti stessa spiega nella nota editoriale del catalogo, il suo lavoro è animato “dalla volontà di approfondire piuttosto che di cercare di rappresentare tutto”. Seguendo quest’ottica vari tracciati e linee di pensiero attraversano, come un fiume sotterraneo, l’insieme della programmazione, instaurando dei rimandi, stabilendo delle corrispondenze fra i film che entrano così in dialogo gli uni con gli altri.
Le sezioni monografiche del Festival abbracciano tutta la storia del cinema documentario tessendo una relazione privilegiata con la materia del filmare stesso come è il caso della sezione dedicata alla notte, “La notte ha degli occhi”, o con degli eventi storici cruciali, come avviene nella rievocazione della Rivoluzione dei garofani in Portogallo presentata nella rassegna “Portugal 25 avril 1974, una tentativa de amor”, per svilupparsi ulteriormente sul cammino della riflessione etnografico-filosofica con una retrospettiva sull’opera di Raymonde Carrasco e Régis Hebraud, riallacciandosi poi naturalmente al lavoro di Jean Rouch, fondatore del Cinéma du Réel, in un percorso di deambulazioni parigine, per concludersi infine con il fasto della narrazione di John Berger, storyteller d’eccezione che firma il film di chiusura del Festival Play me something.
Tra i mille impegni e vari imprevisti da affrontare durante il corso della manifestazione, Maria Bonsanti ha voluto trovare il tempo per riprendere e approfondire una conversazione già iniziata l’anno scorso, un’occasione unica per fare il punto sullo stato delle cose al Cinéma du Réel e parlare del presente, ma anche del futuro possibile e auspicabile per il Festival all’interno di un panorama festivaliero sempre più complesso. Aperta alla realtà francese, ma altrettanto a casa nel mondo internazionale del cinema, Maria Bonsanti, forte della sua pluriennale esperienza italiana, dispone di un vasto orizzonte di pensiero, le sue proposte sul modo di immaginare, progettare e gestire il Festival sono un vademecum prezioso.
Questa 36esima edizione del Cinéma du Réel ti vede per la seconda volta alle redini della manifestazione: nel tuo discorso d’inaugurazione hai detto che spesso la seconda edizione si rivela essere più difficile della prima, perché?
Durante l’inaugurazione ho in effetti scherzato sul fatto che un secondo Festival è un po’ come un secondo film: è il più difficile! Questo succede, ovviamente, quando il primo è andato bene, bisogna dimostrare infatti che il successo della prima volta non era semplicemente dovuto alla fortuna del principiante, ma si basava su un discorso di fondo e su delle proposte veramente valide. Io ho sentito questo tipo di pressione, come ho sentito anche l’esigenza di provare a personalizzare il Festival.
Cosa hai voluto cambiare e cosa sei riuscita a cambiare nel corso di quest’ultimo anno? Suppongo non sia stato un compito facile.
É una supposizione giustissima soprattutto riguardo ai tempi in cui puoi fare avvenire questi cambiamenti, perché ci vuole una certa dolcezza e bisogna veramente tenere presente il fatto che il Cinéma du Réel ha una fortissima tradizione e un bellissimo rapporto con un pubblico che lo sente come sua proprietà- nel senso positivo della parola- un pubblico fedele su cui si può contare e che costituisce una base molto forte. Prendendo le redini della manifestazione non volevo fare nessun tipo di rivoluzione, sentivo però delle esigenze che erano nate dal tempo in cui io stessa frequentavo il Cinéma du Réel come professionista accreditata. Queste esigenze non erano tanto relative alla selezione in sé, per la quale ho sempre trovato il massimo interesse, ma alla dinamica del Festival: per me era molto importante rafforzare l’idea del Cinéma du Réel come un Festival a vocazione internazionale, come un luogo d’incontro in cui si possa parlare anche dei film “da fare” e non solo dei film già fatti, come un trampolino di lancio per la circolazione futura dei film. Mi mancava inoltre anche una certa facilità d’incontro con i registi e con i produttori. Bisogna dire che il Centre Pompidou è non un luogo facile da questo punto di vista; si trattava quindi di renderlo ospitale nei suoi spazi e di creare dei momenti, al di là della programmazione, in cui le persone potessero incontrarsi.
Quali soni i nuovi luoghi d’incontro che hai organizzato?
Per quanto riguarda l’aspetto conviviale del Festival quest’anno abbiamo trovato un luogo nuovo per organizzare delle serate e degli after dopo l’ultima proiezione: si tratta di un battello-bar sulla Senna, il Mellow bar.
Per quanto riguarda invece l’aspetto più strettamente professionale abbiamo messo a punto, per la prima volta quest’anno, due giornate di proiezioni a porte chiuse per i distributori: Paris Doc, les rencontres professionelles du Réel – Professional days at the Cinéma du Réel. Quest’iniziativa mi sembrava necessaria: è un vero peccato, infatti, che un film, una volta prodotto, non sia distribuito, soprattutto in Francia dove c’è la possibilità di fare circolare questi film. Per il documentario le modalità di diffusione qui sono svariate: non si pensa solo alla sala ma, anche per esempio alla rete delle biblioteche e delle mediateche che hanno un’attività permanente, o al video on demand (VOD) o a tutti i circuiti legati alle varie associazioni che si prestano ad una promozione tematica dei film (film sui diritti umani, sull’ecologia e via di seguito).
Per noi questo è comunque un inizio; in questo contesto abbiamo scelto di presentare cinque progetti che non sono ancora completamente terminati e che quindi non erano pronti per essere mostrati al Festival. Si tratta di film che avremmo eventualmente invitato se ci fosse stata la giusta tempistica e che probabilmente avranno la loro prima mondiale in un altro festival che però, intanto, attraverso la nostra iniziativa avrebbero facilitato il passa parola perché i professionisti che si recano ad un festival partono già con l’idea che un certo film meriti un’attenzione particolare.
Pensi in futuro di ampliare le attività del Cinéma du Réel eventualmente anche sul versante della produzione?
Direi proprio di no. Non vogliamo proporre qualcosa che già esiste come il FID Lab di Marsiglia o il Dox:Lab del CPH:DOX di Copenhagen, tanto per citare due esempi. Quello che facciamo è concentrarci esclusivamente sul discorso della diffusione. Quello che cerchiamo di fare è riempire un vuoto. A Parigi, paradossalmente, non c’era fino a questo momento un rendez-vous per i professionisti del documentario. Per me quest’iniziativa è anche uno strumento per conquistare la fiducia dei distributori che, infatti, vedendo da parte nostra un atteggiamento d’interesse nei loro confronti, hanno cambiato a loro volta atteggiamento chiedendo, già prima del Festival, delle segnalazioni precise sui film selezionati. Questa è una novità, un piccolo segnale positivo.
Quali sono i problemi che ti trovi ad affrontare nel corso della manifestazione?
La sede del Festival ci costringe a confrontarci spesso con dei problemi di logistica. L’aspetto istituzionale di un luogo, così rigorosamente strutturato come il Centre Pompidou, non si concilia infatti facilmente con le esigenze di un evento che deve vivere nella massima flessibilità e nell’improvvisazione. Sabato scorso, per esempio, c’è stata una richiesta d’intervento da parte degli “intermittenti dello spettacolo” in seguito a delle decisioni prese dal loro gruppo sindacale il giorno prima. Sotto l’etichetta “intermittenti dello spettacolo” si raggruppano qui in Francia vari mestieri legati al mondo dello spettacolo; i diritti salariali di questi lavoratori vengono tutelati grazie a uno statuto straordinario, unico in Europa nel suo genere, che permette loro di venire retribuiti in modo continuo dallo Stato, nonostante la natura discontinua del loro lavoro. Questa è una differenza fondamentale che cerco spesso di spiegare ai miei amici e colleghi in Italia; l’idea appunto che in Francia il lavoro nell’ambito della cultura venga garantito anche quando si tratta di attività che hanno una natura non continuativa. Questo sistema ha consolidato il valore della cultura in Francia; il lavoro culturale, riconosciuto in quanto tale, trova qui un suo pieno inserimento nel sistema sociale. In questo momento però, a causa della crisi economica, lo statuto degli “intermittenti dello spettacolo”, nella sua forma attuale, viene messo seriamente in forse da una serie di nuove proposte di legge. Riprendendo il discorso, sabato scorso volevano, in un primo tempo, occupare gli spazi del Festival poi, discutendo, ci siamo trovati sull’idea di fondo che il Cinéma du Réel potesse essere visto come un’occasione che avrebbe dato loro della visibilità.
Quindi come una piattaforma di discussione piuttosto che come un luogo di contestazione…
In effetti. In quest’ordine d’idee, abbiamo dato loro la possibilità di intervenire all’apertura di un dibattito dal titolo: Perchè mi filmi? La delicata alchimia fra chi filma e chi viene filmato che avevamo programmato nel corso di quella mattinata insieme all’ADDOC, l’Associazione Dei Documentaristi Francesi, un gruppo di persone che erano quindi toccate dagli stessi problemi. Oltre a questo spazio di parola abbaimo poi dato agli “intermittenti” la possibilità di presentare le loro rivendicazioni ad una delle tavole di discussione del Festival. Fin qui sembrava che tutto andasse bene salvo che, dopo un’ora, è venuto il servizio di sicurezza del Centre Pompidou a chiedermi come mai avessi autorizzato un’occupazione! Ti faccio presente che erano solo cinque persone… Una situazione anche abbastanza buffa, in fin dei conti. Alla fine, insistendo sul fatto che il Festival non è solo un luogo di riflessione dedicato alla creazione, ma anche alla professione, sono riuscita a convincere il Centre Pompidou a lasciare un tavolo a loro disposizione. E’ stato comunque un momento delicato da gestire.
Eppure il Cinéma du Réel mi sembra un luogo particolarmente appropriato per costruire un dialogo produttivo fra quello che succede all’interno del suo spazio e quello che succede all’esterno…
Sono d’accordo, e questo aspetto del Cinéma du Réel mi sta particolarmente a cuore come prova la serata Arrested Cinema, dedicata quest’anno alla Russia, che abbiamo organizzato in collaborazione con Arte, actions culturelles. Inaugurata dal mio predecessore Javier Packer Comyn Arrested Cinema è consacrato al cinema “ostacolato” e propone una riflessione sulle barriere della creazione. Prendendo il passaggio del testimone ho deciso di focalizzare questo programma, dedicato in un primo tempo al cinema dei paesi in guerra, sul problema della censura. Quest’anno m’interessava sapere qualcosa di più sulla situazione in Russia rispetto alla produzione documentaria; qual è la libertà d’espressione che hanno gli autori e fin dove possono arrivare per non incorrere in problemi? Il soggetto su cui abbiamo deciso di concentrarci mi è stato segnalato dal critico russo Boris Nelepo; si tratta del progetto multimedia di Pavel Kostomarov e Alexander Rastorguev intitolato The Term. I due registi russi hanno cominciato delle riprese durante le manifestazioni nel marzo del 2012. Poco dopo avere iniziato questo lavoro hanno dovuto interromperlo perché la casa dove lavoravano è stata perquisita e il loro materiale è stato sequestrato. A questo punto hanno deciso di trasferire il lavoro sul sito di una televisione on line. Per un anno hanno fatto l’upload settimanale delle manifestazioni, mettendo online il vero e proprio resoconto dell’evoluzione politica degli oppositori di Putin. In queste ultime due settimane, in seguito alla crisi in Ucraina e a quanto è poi successo in Crimea, c’è stata la chiusura definitiva di questa televisione, che era considerata un po’ l’ultimo spazio di espressione per la libertà di stampa. Mercoledì 26 marzo, abbiamo avuto l’occasione di vedere del materiale inedito che finora i cineasti non hanno ancora potuto mostrare da nessuna parte.
Quali sono le grandi linee dei film selezionati per il Concorso Internazionale di quest’edizione?
Il Concorso Internazionale presenta quest’anno le opere di vari registi cari al l Cinéma du Réel come Denis Côté, che aveva presentato due anni fa Bestiaire, o Kasuhiro Soda che era già stato al Festival con due film negli anni precedenti o ancora di Harun Farocki e Volker Koepp che aveva vinto il Grand Prix du Réel nel 2008 con Holunderblüte (Fiori di sambuco). Si tratta di una serie di autori importanti con opere che sentiamo molto valide e che uniscono spesso un sapore intimo a un discorso sulla memoria collettiva: esemplare è l’ultima opera del maestro argentino Edgardo Cozarinsky, Carta a un padre (Lettera ad un padre).
Per quanto riguarda il resto delle sezioni competitive, ci sono stati dei soggetti, delle preoccupazioni ricorrenti?
Direi che quest’anno emerge con forza particolare un discorso sulla collettività; sono stati molti i film in cui si parla di gruppi, di esperienze e di spazi condivisi, più o meno forzatamente, in cui si esplora come si forma e si conforma un modello di società o di esperienza comunitaria. Nella competizione francese quest’aspetto è particolarmente evidente dato che, almeno la metà dei film, raccontano delle esperienze di collettività. Penso per esempio a Haute Terre di Marie-Pierre Btêtas che esplora i sussulti di una piccola comunità di agricoltori senza terra nel Nordest brasiliano quando lo Stato li rende inopinatamente proprietari dei luoghi occupati; o a On a grèvé di Denis Gheerbrant che segue il primo sciopero di un gruppo di cameriere extracomunitarie impiegate in hotel di lusso a Parigi; o ancora a Sangre de mi Sangre di Jérémie Reichenbach, studio attento di una famiglia Mapuche in Cile; a Sauf ici, peut être di Matthieu Chatellier che s’interessa alla vita della comunità francese di senza tetto Emmaüs; a Les troicent hommes di Emmanuel Gras e Aline Dalbis, immersione in un centro di ospitalità notturno a Marsiglia ed infine a Si j’existe je ne suis pas un autre di Olivier Dury e Marie-Violaine Brincard, osservazione sottile di un gruppo di giovani ‘difficili’ durante un programma d’inserimento scolastico nella periferia parigina.
Una sezione che ritengo particolarmente interessante è quella dedicata alle opere prime e seconde. Ci sono dei film che ti stanno particolarmente a cuore fra i nove presentati in concorso quest’anno?
E’ difficile dirlo ma, visto che sto parlando con una compatriota, ti segnalo molto volentieri i due film fatti da autori italiani: ovvero Il Segreto di Cyop & Kaf e Mare Magnum di Ester Sparatore e Letizia Gullo. Il Segreto è stato presentato in prima mondiale al Torino Film Festival, io avevo però molta voglia di farlo rivedere perché trovo che meriti veramente. Il Segreto è un oggetto inusuale, spunta fuori così, e non si sa da dove venga; il film possiede, a mio avviso, una forza notevole, quasi letteraria direi. Una macchina da presa insegue dei ragazzini in giro per le strade di Napoli mentre recuperano i ceppi degli alberi di Natale. Guardando le immagini ci chiediamo come mai e non capiamo bene cosa i piccoli protagonisti vogliano fare. In un primo tempo pensiamo che possa trattarsi di una certa forma di commercio, in realtà però tutta quest’attività frenetica è legata ad un rituale di rivalità fra le bande dei ragazzini sul chi riuscirà a fare il falò più grosso bruciando gli alberi. Questo falò liberatorio finale trasforma, a mio avviso, il film in qualcosa di simile a Il Signore delle Mosche di William Golding. Cyop & Kaf, i due registi, sono degli artisti che hanno lavorato molto a monte con i ragazzi dei Quartieri Spagnoli, filmandoli solo poi di seguito; nel loro stile cinematografico si sente una personalità fortissima.
Prendendo spunto dal soggetto, in una certo senso antropologico, del rituale dei ragazzini a Napoli, vorrei a mia volta soffermarmi sulle corrispondenze sotterranee che, come un filo rosso, attraversano l’insieme della programmazione del festival, creando delle sinergie affascinanti. Durante la Master Class organizzata da Nicole Brenez sull’opera della cineasta francese Raymonde Carrasco, si è parlato del rituale del peyote praticato delle popolazioni Tarahumara in Messico che Carrasco, da vera pioniera, era riuscita a filmare negli anni ottanta. Guardando poi il film di Nicolàs Echevarrìa – Ecos de la Montaña (concorso internazionale) ho ritrovato con grande stupore e piacere lo stesso soggetto, filmato quarant’anni dopo, più o meno sugli stessi luoghi.
Mi fa molto piacere che questo aspetto della programmazione venga percepito, perché per noi è un elemento importante e rispecchia il nostro modo di lavorare. Restando sul discorso del rito, tutto comincia con il decimo anniversario della morte di Jean Rouch che, comunque, aveva lavorato con Raymonde Carrasco, questi sono dei raccordi ben evidenti…
Il Cinéma du Réel è nato, com’è noto, come festival etnografico e, ancora oggi, anche se in tutt’altre forme rispetto ai tempi di Jean Rouch, l’etnografia filmata resta un’esigenza a giudicare, per esempio, dal successo di un film come Manakamana di Stephanie Spray e Pacho Velez, che è stato premiato a quest’estate a Locarno, oppure dall’opera di Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor o ancora da quella di JP Sniadecki. Tutti questi artisti, pur mettendo a punto delle forme cinematografiche in opposizione con una visione accademica dell’etnografia, portano avanti pur sempre, anche se in un modo diverso, una riflessione etnologica.
Una sezione monografica particolarmente affascinante è quella dedicata alla notte-filmata: La Nuit a des yeux- Night has many eyes curata da una programmatrice d’eccezione quale Marie-Pierre Duhamel Müller. Com’è nata quest’idea?
L’incontro con Marie Pierre è stato molto importante per me; di fatto ci conosciamo dal 2000, anno in cui ho iniziato la mia attività lavorativa nel settore proprio al festival di Locarno, diretto quell’anno da Marco Müller. Poi con Marie Pierre i nostri percorsi si sono incrociati varie volte fino a quando lei ha programmato, al Festival dei Popoli, una sezione sui volti del potere proponendo un percorso fra i film che io ho trovato particolarmente interessante. A quell’epoca Maria-Pierre mi aveva già parlato dell’idea di fare qualcosa sulla notte. Per un festival è una vera e propria gioia potere disporre di uno spazio di libertà come quello di una sezione tematica che si configura come una vera e propria traversata di più di un secolo di cinema partendo dai film di Edison per arrivare fino al giorno d’oggi. Questo programma è stato completato da una Master Class, Filmer la (de) nuit, tenuta da alcuni direttori di fotografia ampliando così questo soggetto, fortemente evocativo, con una riflessione concreta sulla ‘materia’ della notte e di quanto comporti, anche tecnicamente, filmarla.
Un corpus così esteso presuppone la possibilità di mostrare dei film di formati diversi, una pratica che diventa ormai sempre più rara …
In effetti, quello dei formati è un aspetto al quale tengo molto. Il Cinéma du Réel ha la fortuna di potersi basare sul Centre Pompidou che, avendo una sua collezione di film, mantiene tuttora i proiettori per i sedici ed i trentacinque millimetri nonché delle persone capaci di manovrarli e su cui noi possiamo fare affidamento per mostrare dei film rari nel loro formato d’origine.
Potresti parlarmi della sezione monografica “Portugal 25 avril 1974, una tentativa de amor”, dedicata alla rivoluzione dei garofani in Portogallo?
Dopo l’esperienza positiva del Cile dell’anno scorso volevo quest’anno lavorare sulla rivoluzione dei garofani; qualche mese fa ci siamo incontrati con Federico Rossin, il curatore di questa sezione, che sarebbe andato a Lisbona per Doc Lisboa, e avrebbe avuto la possibilità di accedere agli archivi della Cineteca Portoghese. Da lì poi ci siamo incontrati con José Manuel Costa, direttore della Cineteca, che ci ha fornito il materiale di cui avevamo bisogno: tutti i film della retrospettiva portoghese sono presentati nel loro formato originale, una cosa di cui sono molto fiera.
Concludendo vorrei chiederti cosa ti auguri per questa edizione del Festival?
Mi auguro semplicemente di continuare a vedere, durante i prossimi giorni e fino alla fine del Festival, i registi che abbiamo invitato a mostrare i loro film sorridere e sentirli dire che sono contenti dei dibattiti a fine proiezione.
Mi rendo conto che, detto così, può sembrare un po’ retorico però, in questi giorni così faticosi, per me questi sorrisi contano veramente molto!
articolo molto interessante che spiega bene le dinamiche del festival