Neoformazioni di cinema di genere provano l’approdo a questa terra di cineasti incompresi. Fermenti di un modo e di una moda che seppe avvincere e qualche volta raccontare il mondo si avvicinano, poco numerosi e spaesati, a questa gloriosa tradizione: benvenuto al suo ricordo e al reclamo che si fa di lui che non c’è più. Idealizzato e strappato dal contesto. Che quando c’era lui, c’era un grande cinema. Lui che ci manca tanto, che se le cose non vanno è perché è morto lui.

Fatto sta che ogni volta che si muove un film basato su regole codificate, a qualcuno piace riesumare il cadavere lunghissimo del cinema di genere e gridare la sua religiosa resurrezione, che pare salverebbe il cinema. Tutto da dimostrare.

Basta La cura del gorilla: poca cosa. Basta un film come Apnea: noir accettabile e fragile che parla di lavoro nero, immigrazione e Nord Est italiano contemporaneo. Basta quel talentaccio estemporaneo di Soavi Michele: splendido e isolato Arrivederci amore ciao. Basta Notturno bus che non ha deciso da che parte stare e ha optato per una mescolanza astuta e limitante, ma ben organizzata. Basta la sorpresa de La ragazza del lago di Molaioli: giallo puro senza sbavature. E basta il semplice esercizio d’omaggio e d’amore di Cemento Armato, che è un film scritto a partire da una forte e libera passione per tutto il cinema di genere, dal western al noir, dal thriller al poliziesco. E’ un film scritto a sei mani da Martani, Brizzi e Poldemengo. Con cautela, attenzione e una serie di azzeccate intuizioni. Associate, peccato, ad altre che tendono a vanificarle, in parte riuscendoci. Il film è girato senza l’estetica necessaria per trasformare uno sforzo intelligente, in una perla capace di suscitare reazioni e tendenze. E’ scritto con passione e lucidità, ma messo in immagini senza maestria; impressionato da tantissimo altro cinema, ma privo di un carattere definito al punto da suscitare una vera ammirazione. Perché nel cinema, a differenza che nel cibo, l’aspetto estetico è uno dei primi contribuenti al sapore. E va da se’ che con un altro vestito e con essenze aromatiche di maggiore qualità, questo film ci sarebbe piaciuto di più. Ma, attenzione, Cemento armato non è un’opera sciatta, svogliata e priva  di idee. C’è un pensiero preciso e deciso dietro l’opera d’esordio di Marco Martani (navigato sceneggiatore Filmauro e compagno di Brizzi nei due film sugli esami): questo pensiero è un’idea che non si traduce in cinema maturo e che non riesce a farsi compatta quando dalla pagina si passa all’inquadratura. Dal punto di vista visivo si nota una tenace ricerca formale, tanto percorsa quanto sciolta dentro il mare dei rimandi e dei riferimenti. La fotografia e la scenografia puntano dall’inizio all’antitelevisione e questo non è mai un fatto negativo. Alla fine, se il film rimane vivo al tocco dello spettatore è  solo grazie alla sua impalcatura narrativa. E diventa un film bruttarello ma dal gusto abbastanza gradevole.

Poi però, se dentro al chiaro e coraggioso esperimento ci finiscono dentro queste due – tre facce da nuovo cinema italiano, allora il discorso cambia e si complica. Nasce un dubbio. E’ come mettere dentro la scatola di un profumo da donna un bel sigaro cubano. Come vendere scarpini in un negozio di scarpe da donna. Come mettere nella confezione dello stereo il tanto famigerato e temuto “mattone”. Si può riflettere sulla brevissima distanza temporale, muta peraltro, che separa questo film dal ciclone prima degli esami. E ci sta che non sia semplice sbloccare la psiche dall’immagine di un Vaporidis, d’una Crescentini e d’un Faletti alle prese con gli amoretti di maggio e con le notti di pizze fredde e di calzoni. Ma non ci dà tregua il personaggio extra filmico che mina alla sua base questo interessante e monco film. Perché ci sono anche facce e interpretazioni che onestamente appartengono a un altro modo di fare cinema, alla commedia giovanile. E nel caso di Vaporidis, a un cinema di poco valore espressivo. Nessuno dei tre protagonisti convince profondamente, anche se nel lavoro della giovane e svelta Carolina si intuiscono doti artistiche estranee allo scugnizzo educato dei due film di Brizzi. Riuscire a stabilire una differenza di spessore tra l’interpretazione di Dario Cassini e quella di Nicolas non è un bel segnale. Non ci è difficile immaginare quante motivazioni stiano dietro alla scelta dei protagonisti, ma ci va anche di pensare che quella volpe di Brizzi avrebbe sognato qualche altro attore italiano in questo ruolo. Perché Brizzi guarda al botteghino ma non gli dispiace il cinema. E’ un uomo privo di cattivo gusto.

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