Ho incontrato Pablo Giorgelli, premiato con la Caméra d’or all’ultimo Festival di Cannes per il suo Las acacias, in occasione della ripresa della Semaine de la critique alla Cinémathèque française a Parigi: con grande generosità e simpatia ha accettato di fare luce su vari aspetti del suo lavoro.
Come é nato il progetto di Las Acacias?
L’idea del film é nata, più o meno, cinque anni fa in un momento difficile della mia vita, era il periodo della grande crisi economica in Argentina ed io stesso ero disoccupato. In quel momento stavo scrivendo un’altra sceneggiatura quando mio padre si é ammalato gravemente. Ho dovuto smettere di lavorarci su perché non riuscivo proprio più ad andare avanti. In mezzo a tutti questi problemi é iniziata a farsi strada nella mia mente la storia di un camionista. All’inizio non sapevo ancora bene quello che avrei voluto raccontare o verso quale direzione mi avrebbe portato la storia; nonostante ciò ho iniziato subito a prendere degli appunti e a buttare giù delle idee. Poi, durante un viaggio di fine settimana con Maria (María Astrauskas è la montatrice del film ed attuale moglie del regista) la mia attenzione è stata attratta dalla presenza di una donna sul lato della strada: era circondata da un sacco di borse e se ne stava lì da ore ad aspettare qualcuno. Quest’immagine si è rivelata essere molto importante per me; da quel momento in poi ho iniziato ad immaginarmi il resto della storia. Pian piano, con il tempo, la vicenda si è sviluppata e circa un anno dopo avevo già una prima versione della sceneggiatura. In seguito ho partecipato ad un concorso di sceneggiatura a Cuba ed ho vinto il primo premio che mi ha permesso di contare sulla partecipazione della televisione spagnola alla produzione del film.
Quando ho iniziato questo progetto sentivo un bisogno profondo di parlare di quanto mi stava succedendo. L’idea originaria di Las Acacias tratta proprio di questo: del dolore che si prova di fronte alla perdita di una persona cara, della solitudine che ne deriva e della paternità. D’altra parte però la gestazione del film è stata così lunga che, nel corso degli anni, la mia situazione personale è cambiata; nella mia vita sono apparse pian piano delle cose belle come il mio matrimonio con Maria. Questi aspetti sono confluiti nella pellicola che parla anche della possibilità che ognuno di noi porta in sé di rinascere, di ricostruire la sua esistenza.
Si potrebbe dire che, in un certo senso, questo film è cresciuto con te, andando di pari passo con la tua vita?
È esattamente così! Ogni volta che guardo il film – nonostante non sia esplicitamente autobiografico, né parli direttamente di me – mi sento molto prossimo alla vicenda narrata, perché essa riflette l’essenza di quanto mi è successo in questi ultimi anni. Gli stati d’animo descritti nella pellicola sono un po’ gli stessi che ho provato nel corso del tempo partendo da un periodo di solitudine e di dolore per approdare ad un’altra epoca in cui mi sono sentito capace di aprire di nuovo il mio cuore agli altri e di cominciare una nuova vita.
La sceneggiatura è firmata anche da Salvador Roselli, uno sceneggiatore molto conosciuto, fra l’altro anche per Bombon y el perro uscito nel 2004. In quale fase della scrittura è iniziata la vostra collaborazione?
La mia collaborazione con Salvador, che è un mio amico, è iniziata molto presto, prima di mandare la sceneggiatura al concorso di Cuba. In quel momento avevo in mano semplicemente una prima idea della storia, una sorta di sinossi; la decisione di coinvolgerlo nel progetto si è rivelata molto giusta perché Salvador è un ottimo sceneggiatore che conosce bene l’arte della scrittura mentre io ero ancora alle prime armi. Fare cinema, si sa, è un’attività collettiva; il segreto di un buon risultato sta proprio nella capacità di lavorare con gli altri e di mettere insieme una buona equipe, attraverso queste collaborazioni il lavoro si arricchisce. Penso di essere stato molto fortunato; sono riuscito a trovare le persone giuste per ogni tappa del processo di fabbricazione del film.
La scelta dei tre interpreti è stata di un’importanza capitale per la riuscita della pellicola, come si è svolto il casting?
Per il ruolo di Rubén, il camionista, al principio pensavo di ingaggiare un attore non professionista; durante quasi un anno ho cercato dei camionisti sulle strade e nelle aree di stazionamento e ho fatto dei provini con molti di loro. Per me era molto importante rispettare la sceneggiatura, non volevo che ci fosse dell’improvvisazione; ovviamente degli attori non professionisti non erano in grado di darmi esattamente quello che avrei voluto. Ho dovuto così cercare un attore di mestiere: dopo un anno di casting ho finalmente incontrato German de Silva. German ha capito molto rapidamente l’essenza del suo personaggio ed il tono della pellicola; in linea di principio non volevo sovraccaricare, marcare o enfatizzare nulla non solo rispetto alla recitazione ma anche per quanto riguarda la luce, i colori, la mancanza di musica.
Hebe Duarte che interpreta il ruolo di Jacinta invece, non è un’attrice professionista, l’ho incontrata quasi due anni prima di incominciare a girare il film perché era l’assistente del direttore del casting in Paraguay. Al principio non l’avevo neanche notata finché ad un certo punto il direttore mi chiese: “Ma insomma, tu come te la immagini questa donna?” ed io, puntando il dito sulla sua assistente, gli dissi: “Guarda, proprio come lei!”. Così abbiamo deciso di farle un provino che è andato molto bene perché lei è un’attrice istintiva, naturale. Trovo che sia meravigliosa nel film. La vera prova del nove é stato il momento in cui ho riunito Jacinta con Rubén e poi loro due con il bebé: ha funzionato tutto a perfezione ed è stato un vero miracolo!
Dirigere un bebé è praticamente impossibile, come ti sei organizzato? Come hai affrontato, concretamente, questo problema?
Ancora una volta abbiamo avuto molta fortuna con la scelta della bimba. Se posso parlare di un merito da parte nostra direi che è consistito nel pianificare tutto le riprese in funzione del bebé e dei sui bisogni. Abbiamo preparato in anticipo tutte le scene con i due attori in modo che fossero pronti in ogni momento ad intervenire passando da una scena all’altra seguendo la bimba, adattandosi ai suoi tempi ed aspettandola, quando era necessario.
Volendo seguire la sceneggiatura alla lettera la partecipazione del bebé deve avere costituito una delle maggiori difficoltà delle riprese…
A dire il vero, non più di tanto, perché le scene descritte nella sceneggiatura erano delle situazioni logiche, verosimili. La sceneggiatura racconta in fin dei conti proprio questo; il bebé piange, mangia, dorme, ha fame, fa le cose che di solito fanno tutti i bambini. Scrivendo abbiamo pensato che prima o poi la bimba avrebbe fatto tutto questo; l’unica vera sfida è stata quella di essere sempre pronti ad ogni istante per girare. Credo che questa sia stata, in fin dei conti, la chiave che ci ha permesso di filmare la b
imba in condizioni ottimali; ovviamente dobbiamo molto anche alla fortuna e al fatto che questo bebé è un piccolo miracolo in sé! Quando ho messo la bimba fra le braccia di Hebe Duarte mi sono subito reso conto che fra loro due c’era una buona chimica ed ho capito che era la buona scelta. Ancora oggi quando guardo il film stento a credere che Hebe ed il bébé non siano madre e figlia nella vita reale.
Dopo questa lunga fase di preparazione quando hai finalmente iniziato a girare e quanto tempo sono durate le riprese?
Il film è stato girato esattamente un anno fa, fra marzo e giugno del 2010, le riprese sono durate cinque settimane e si sono svolte lungo le tappe principali della strada fra Asunciòn e Buenos Aires: durante i primi dieci giorni nella zona della frontiera fra l’Argentina e il Paraguay e nella città attigua, in seguito più o meno a metà del cammino ed infine alla periferia di Buenos Aires, nel luogo in cui finisce la storia del film. Fra questi tre luoghi principali abbiamo ricostruito tutto il viaggio che comporta nella realtà un tragitto di 1500 Km.
Nella messa in scena opti per un partito preso abbastanza rischioso e radicale scegliendo di filmare la maggior parte della pellicola da un punto di vista interno al camion, inglobando noi spettatori in questo spazio: i due protagonisti sono costantemente ritratti in campo, contro-campo. Cosa ha motivato questa tua scelta?
Penso che quest’idea di messa in scena sia stata d’importanza fondamentale perché ha dato al film una sua propria identità; tuttavia il processo che mi ha portato a prendere questa decisione è stato molto lungo. Al principio non ero così sicuro che la cosa potesse funzionare, anzi avevo paura che il film risultasse troppo calustrofobico, chiuso. Questa scelta è nata dal bisogno che sentivo di stare vicino ai miei personaggi; non mi interessava raccontare il viaggio in sè – il film non è assolutamente nato come un road movie classico – mi interessava invece raccontare il conflitto di quest’uomo con se stesso, la difficoltà che incontra nel comunicare con gli altri e il suo confrontarsi con la paternità. Se si tratta di un viaggio, si tratta di un viaggio interiore. A questo punto non mi è rimasto null’altro da fare che spiegare al resto dei miei collaboratori come volevo impostare la messa in scena; sapevo bene che questa scelta era rischiosa, ma per me non era più possibile tornare indietro.
Tutta la pellicola si è venuta costruendo poco a poco in questo modo: ho sempre deciso di fare quello che sentivo in me di dover fare, senza fermarmi ad analizzare troppo le cose.
Il film è caratterizzato da una grande economia nei dialoghi; i due protagonisti comunicano principalmente attraverso il loro sguardo, l’espressione del loro volto.
Sì, in effetti è così. Come dicevo prima uno dei soggetti centrali del film è la difficoltà che il protagonista incontra nella sua relazione con gli altri; è naturale che questo disagio si traduca attraverso un’assenza quasi totale di comunicazione verbale. Quest’aspetto della sceneggiatura non è frutto di un semplice capriccio, ma corrisponde all’evoluzione dei rapporti fra Rubén e Jacinta che all’inizio non hanno molto da dirsi e si parlano solo quando è strettamente necessario. Ovviamente la difficoltà maggiore è consistita nel trovare una giusta misura, un equilibrio: non eccedere, non enfatizzare troppo da un lato, senza cadere nel tranello di fare una pellicola criptica, chiusa in sé o ermetica dall’altro.
La storia che racconti è, in effetti, piena di umanità.
Per me la cosa più importante era che il film non perdesse la sua carica di emozione; la storia che racconto tratta dei sentimenti delle persone che fanno questo viaggio.
In questo contesto il bebé gioca un ruolo fondamentale perché riesce ad abbattere le difese del protagonista che all’inizio se ne sta tutto rinchiuso in sè, isolato dagli altri. Quest’incontro gli permette, alla fine, di ritrovare se stesso ed il suo lato migliore.
L’atmosfera del film ha qualcosa di vagamente nostalgico…
In effetti abbiamo prestato molta attenzione a questo aspetto della scenografia cercando di evitare degli aspetti eccessivamente moderni; per esempio dei modelli di macchina recenti con delle carrozzerie dai colori stridenti o delle aree di stazionamento nuove o ancora dei cellulari. Volevo che il film avesse un carattere un po’ fuori dal tempo: la vicenda che vediamo succede oggi ma sarebbe anche potuta succedere dieci o quindici anni fa.
Nel film non c’è musica; il suono del motore del camion è invece onnipresente. Potresti parlarmi di questo aspetto della pellicola?
La banda sonora del film ci è costata moltissimo lavoro; di fatto abbiamo dedicato molto più tempo al suono che al montaggio stesso. Una parte del suono l’abbiamo registrata in diretta durante le riprese ed un’altra parte in seguito. Per ricreare l’ambiente sonoro siamo stati in giro dei giorni interi a registrare dei suoni addizionali ed integrarli in post-produzione al resto della banda sonora. Durante questo processo mi sono reso conto che non era necessario aggiungere della musica e, a dire il vero, l’idea di usare della musica per sottolineare degli stati emotivi non mi ha mai veramente convinto. Il rumore creato dal motore del camion funziona come una specie di “mantra” durante tutto il tempo!
Las Acacias ha in effetti un aspetto ipnotico dovuto non solo al suono costante del motore ma anche alle frequenti vibrazioni dell’immagine.
Questo è un effetto voluto e ci ho lavorato molto su per poterlo raggiungere: al di là del viaggio interiore dei personaggi, mi interessava mostrare anche l’aspetto fisico del viaggio. I viaggi lungo questo tragitto durano tanto tempo ed hanno in effetti qualcosa di ipnotico in sé, sono molto faticosi; volevo che questo viaggio si sentisse anche nel corpo.
A parte i prestigiosi premi che Las Acacias ha vinto quali sono state le altre soddisfazioni che il film ti ha dato?
Un mese fa non mi sarei neanche potuto immaginare tutto questo; sta di fatto però che il mio desiderio maggiore, fin dall’inizio, era quello che il film potesse essere visto da un grande numero di persone. I premi aiuteranno senza dubbio il film ad avere un percorso diverso per quanto concerne la sua visibilità. Las Acacias uscirà gennaio prossimo in Francia, poi in Inghilterra, spero che possa trovare una distribuzione anche in Italia. Da un punto di vista personale per me la cosa più importante è stata la soddisfazione di potere raccontare delle cose che mi stavano veramente a cuore. Quando ho terminato questo progetto, e poi, dopo durante gli ultimi giorni a Cannes non ho fatto altro che pensare a mio padre che, purtroppo, non potrà mai vedere Las Acacias; il film gli è dedicato.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ho molte cose in mente ma, per il momento, penso di riprendere a lavorare sul quel progetto che avevo iniziato prima di Las Acacias. La mia nuova sceneggiatura è ispirata alla vita di mia nonna e il suo titolo provvisorio è: Mi abuela Julia. Tutto questo però succederà dopo un periodo di vacanza perché, ora come
ora, sono molto stanco e sento di avere bisogno di una certa distanza.