“Credo che questo libro contribuirà a rimarginare una ferita aperta da 15 anni”, scrive Jon Savage (giornalista simbolo del punk e della New Wave britannica) nella interessante prefazione di Touching from a Distance, biografia di Ian Curtis, scomparso frontman dei Joy Division, ad opera della vedova Deborah (e pubblicata in Italia da Giunti nel 1996 col titolo Così vicino, così lontano).
Una ferita, come suggerisce Savage, aperta su due fronti: nel subconscio (socio-culturale) di una città operaia e senza sogni, ancora lontana dalla rivoluzione musicale e artistica della Mad-chester degli anni ‘90; nel dramma personale, profondo e straziante, di tutti i suoi protagonisti.
La gestazione di Control, opera prima del fotografo VIP-rock olandese Anton Corbijn, già attivo a fine anni ’70 con la band stessa, si presenta senza dubbio lunga e faticosa. Annunciato nel 2002, il film ha attraversato molti titoli e molte riscritture prima di arrivare alla sceneggiatura definitiva, basata sulla biografia succitata di Debbie (proprietaria dei diritti sull’opera di Curtis) e su Torn Apart di Lindsay Reade (ex-moglie di Tony Wilson, guru dell’etichetta mancuniana Factory, già immortalato in 24 hours party people di Winterbottom).
La versione finale, presentata a Cannes 2007 e premiata con l’Europa Cinemas Label al Miglior Film europeo della Quinzaine des Rèalizateurs, aveva certo un compito assai arduo: costruire l’io cinematografico (oltre che iconografico e di senso) di un amatissimo oggetto di culto che — come tutti i culti — si nutre di un’aura evanescente; riempiendo una proiezione di altre proiezioni, per trasformarsi in un altro da sé che richiede, per avere dignità di esistenza, un’identità e un’autonomia.
La vicenda umana di Ian Curtis, chiusa nel corto-circuito di un’esistenza intensa e brevissima conclusa tragicamente da un suicidio all’età di 23 anni, si sottrae, d’altra parte, alla (banalizzante) mitologia della “rock-star morta in giovane età”, ma richiede, anzi, un approccio diverso, più sottile, esistenziale e impalpabile.
Cresciuto nel sobborgo popolare di Macclesfield, nella cinta della Great Manchester, Ian Kevin Curtis manifesta sin dalla giovane età le caratteristiche di una personalità carismatica e disturbante, egoista ed esibizionista, terrorizzata dall’ordinario e affascinata dall’eccezionalità, dagli estremismi e dal nichilismo senza compromessi, culturalmente vicina alle avanguardie destrorse di inizio secolo.
Nelle ristrettissime prospettive di un ambiente degradato e proletario, la fuga di Curtis (mentale ancor prima che fisica) prende ben presto la forma dell’anomalia, attraverso scelte sempre più radicali che lo allontanano dal pensiero condiviso della comunità di provincia, ma lo rendono sempre più unico. Isolato e diverso, seriamente e testardamente intenzionato a dimostrare la propria insostenibile superiorità: sposandosi giovanissimo, o salendo su un palcoscenico per raggiungere la fama.
L’opportunità di riuscita arriva dall’incontro con tre giovani di belle speranze (Peter Hook, Bernard Sumner e Stephen Morris) in cerca di un cantante, e dall’improvviso giro di vite che porta gli informi Warsaw a superare i confini del punk per approdare alle atmosfere dense e ossessive di una delle band di maggiore influenza degli ultimi trent’anni, i Joy Division.
Curtis, vocalist dalla danza rigida e ipnotica, è autore dei (bellissimi) testi del gruppo, che sezionano, come un cadavere cristallizzato (ma anche puro e sublimato come il gruppo marmoreo che si staglia nella copertina dell’album capolavoro Closer), la disillusione esistenziale, teoria sul mondo spinta verso un irraggiungibile assoluto esistenziale, che accumula vorticosamente fatti e cose (quasi come Fuoco fatuo di Drieu La Rochelle) per riempire un nulla sempre più profondo.
E il manifesto (letterario) di Ian Curtis (e dei Joy Division) è proprio il suo progressivo distacco dalla materia (Penso che i vostri sogni finiscano sempre/ Non crescono più, diventano più piccoli /Ma non m’interessa più/ Ho perso la voglia di volere di più, in Insight), che assume la sinistra forma esteriore (e non solo) dell’epilessia, le cui avvisaglie e i cui effetti diventano sempre più insopportabili, distruttivi e unici — anche e soprattutto sulla scena.
Attento alla forma (un elegantissimo bianco e nero) e alla superficie degli eventi (il matrimonio in giovanissima età con Debbie, l’ascesa dell’etichetta Factory, i concerti, l’improvviso insorgere della malattia), Control omette, quasi in un’ammissione di inadeguatezza, ogni accenno all’evoluzione del mal de vivre, schiacciandosi sotto la mimesi assoluta (e assolutamente inespressiva) di attori-manichini e ambienti-fantoccio.
Corbjin sorvola sull’inquietudine, non spiega, non approfondisce, non s’interroga: si limita, epidermicamente, a ricalcare voci e situazioni, a banalizzare inquadrature e dialoghi, utilizzando la replica della realtà come un esorcismo. Sostenendo quasi la teoria agghiacciante (perché tutto sommato ridicola, come un tragico, anacronistico feuilleton) di un suicidio indotto non dal ridursi di aspettative e prospettive, ma dal senso di colpa e dall’incapacità di accettare il tramonto del legame con la moglie (ormai non più amore idealizzabile, ma atrocemente oppresso dai mille problemi del quotidiano) e l’alba di quello con l’affascinante, colta, raffinata e aproblematica Annik Honoré (un’attrazione svincolata, in fin dei conti, da doveri, pappe, pannolini, debiti, bollette e mutande sporche).
Quello che è un pezzo singolo del puzzle doloroso e complesso dell’essere umani, diventa per Corbijn il monolitico motore primo e fine ultimo: e senza possibilità di ulteriore interpretazione.
Per affermarlo definitivamente, supera addirittura il punto di osservazione — già votato all’autoindulgenza — della biografia stessa, cancellandone, addirittura, il grido più lancinante: la danza folle intorno al vuoto, l’ansia di bruciare la propria vita rilanciando la sfida sempre più lontano, fino ad azzerare l’olimpo dei desideri ed annullare se stessi, come atto immenso di sacrificio al fuoco sacro dell’arte.
si belle parole.
se solo riuscissimo a vederlo anche distibuito in italia cazzo!
Completamente ignorato qui nel“bel paese”.. Perchè!!
E poi si lamentano della pirateria cinematografica…
E come faccio a vedermelo se non lo distribuiscono nelle sale?
e io me lo scarico!
E poi valuterò se questa recenzione è all’altezza o meno.
Tanti saluti.
Sulla recensione decidi tu – sul resto, recensire un film di un festival, dalla incerta distribuzione, è sempre una scelta. Parte dei lettori saranno felici di leggere di qualcosa che esiste, e magari potranno vedere un giorno, parte no, perché è frustrante leggere di cose alle quali non si puo’ arrivare.
E’ una questione di mezzi vuoti e mezzi pieni. Noi abbiamo scelto di guardare il mezzo pieno, perché far finta che quello che non si vede non esista non ci piace, e perché informare, in generale, fa bene.
Sul modo di accedere ad un film introvabile, ognuno faccia come voglia – se riesci a vederlo, fammi sapere cosa ne pensi.