Siamo forse di fronte ad una nuova fase del cinema di Fatih Akin?Sospettare che La sposa turca (discutibile traduzione di Gegen die Wand, ovvero “contro il muro”) sia stato l’apice della sua produzione e che ora si assista ad una parabola discendente è sicuramente eccessivo, di certo chi conosce l’opera omnia del cineasta turco-tedesco non può non essere colpito da una sostanziale inversione di rotta, quantomeno dal punto di vista estetico e formale. Quello che caratterizza Ai confini del paradiso (il cui titolo originale suona come “dall’altra parte”) è prima di tutto uno stile dimesso, rigoroso ed essenziale, decisamente antitetico alla intensa sperimentazione formale che caratterizza le sue opere precedenti, dominate da originali movimenti di macchina e da un uso forte del colore (soprattutto il rosso del sangue) e della musica, sia rock che etnica, spesso anche una commistione di entrambe, come accade nel recente documentario Crossing the bridge.
Anche sul piano della sceneggiatura, Akin sembra spostarsi dalla rielaborazione di generi strettamente codificati, come gli omaggi a Scorsese dell’esordio e il divertissement à la Kusturica del road movie Im Juli, verso una autorialità di più vasto respiro, ma forse troppo ambiziosa. Il comune denominatore delle sue opere, la ricerca di una identità tra la cultura turca d’origine e quella tedesca d’adozione, si disperde o meglio si amplifica eccessivamente in una storia sfaccettata, composta di abbandoni voluti o obbligati tra padri e figli, madri e figlie, sospesa tra Germania e Turchia, dove di volta in volta ci si sente appunto “dall’altra parte”. Strutturata in un trittico, in cui le prime due parti sono segnate da due morti tanto violente quanto assurde di donne (una madre turca, una figlia tedesca), la vicenda non manca di precisi spunti politici come la questione curda, i diritti civili, i pericoli dell’integralismo religioso e la condizione femminile, ma il tutto si stempera e perde di forza nel desiderio di ricomporre tutti i pezzi del puzzle costituito dagli incontri dei sei personaggi principali. In particolare nell’ultima sezione del trittico, il desiderio di riconciliazione culturale e generazionale a tutti i costi appare piuttosto forzato e il riannodarsi di tutti i destini individuali risulta alquanto improbabile. Come già ne La sposa turca, Akin rivela il suo limite soprattutto come sceneggiatore, ostinandosi nel finale in spiegazioni non necessarie.
sono d’accordo. (i titoli originari sono molto belli) Dall’altra parte come spinta a capire l’altro
e quindi probabilmente l’altra parte (dosto ci cova) di se stessi-attraverso quasi la presa fisica del posto dell’altro. Come ti dicevo m’è parso prodiano -evviva l’Europa moderata che ci salverà!nelle intenzioni politiche, mentre in quelle psicologiche manca di mordente, e la passione, se c’è, non si vede tanto. La giustificazione al movimento dei personaggi, insomma, è debole e incasellata. Però, in effetti, chi si pone dei fini tanto alti spesso si scontra con la banalità delle cose, e del male. Ciao.invece io non sono d’accordo. il film non ha alcuna pretesa esplicativa. non c‘è alcuna presa di posizione in alcun senso, mi sembra molto onesta la rappresentazione di realtà differenti. inoltre non credo che l’intento di akin fosse quello di parlare di passioni amorose bensì di come le storie individuali si intreccino con il problema più grande che è quello del raggiungimento di alcuni diritti fondamentali. un bel film, a mio parere.