Non c’è nulla da scegliere e nemmeno dunque i conseguenti dilemmi morali da sciogliere in 4 luni, 3 saptamini, si 2 zile (letteralmente “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni”), palma d’oro a Cannes. Tutto è già segnato dall’inizio. In quel sabato del 1987 in Romania alle due studentesse universitarie che dividono la stessa stanza in un residence di Bucarest non resta altro che agire. Null’altro ci mostra Cristian Mungiu, se non la loro azione. Gabita è rimasta incinta ed è oltre il quarto mese (come dice il titolo), la sua amica Otilia l’aiuta a trovare qualcuno che la faccia abortire.
Per capire il loro comportamento può essere utile ricordare un elemento della storia recente di quel paese. In quegli anni in Romania era vietata l’interruzione di gravidanza. Il dittatore comunista Nicolae Ceausescu nel 1966 col decreto 770 aveva interdetto l’aborto. L’unica eccezione alla legge era per le donne con già quattro figli, il quinto poteva esser rifiutato. Nessun metodo contraccettivo era ammesso. Di conseguenza proliferava l’aborto clandestino, nonostante fosse punito con la reclusione anche per i medici. Quando poi il divieto fu tolto, con la caduta del regime comunista, ci fu un’impennata di aborti. Tutt’ora la Romania detiene il primo posto in Europa per numero di aborti.
Insomma la cornice entro cui le due ragazze si muovono è quella di uno stato totalitario, di conseguenza le loro azioni sono fortemente condizionate, anche se i riferimenti al periodo sono labili. Sappiamo quanto possa essere intrusivo quel modello sociale, tanto da non lasciare alla singola persona la coscienza delle proprie scelte. Le due protagoniste possono solo fronteggiare le conseguenze di quanto accaduto. Una delle due (Gabita) poi appare come assolutamente incosciente: senza l’aiuto di Otila, che si dedica a lei sino al sacrificio, non ne verrebbe fuori. Un mondo e uno stile di ripresa che si avvicinano a quelli dei fratelli Dardenne, in cui la libera scelta pare essere bandita.
La macchina da presa segue gli spostamenti nervosi di Otilia. Lo spettatore è sempre con lei, prevale il suo punto di vista. Siamo con lei e sappiamo con lei quanto non sanno il suo ragazzo e le diverse persone che incontra. Secco e rapido, privo di sbavature, ogni immagine del film di Mungiu sembra possedere una sua necessità. Riesce a dominare, lasciandosi attraversare, una materia pulsante. Le riprese mobili sono alternate a lunghi e opprimenti piani sequenza, in cui senza uso della psicologia emerge però la tonalità emotiva della scena (si pensi a Otilia a tavola a cena con la famiglia del fidanzato). Il film inizia buttandoci dentro una situazione e termina allo stesso modo: le due protagonista sono sedute a tavola, quanto c’era da fare è stato fatto, una di loro guarda verso di noi. Stacco improvviso e partono i titoli di coda.
un film durissimo. Non capisco certe critiche che hanno accusato il regista di antiabortismo. Il punto non è l’aborto, ma la deresponsabilizzazione dell’uomo all’interno di uno stato coercitivo che priva della libertà ma anche del peso della scelta. La non assunzione di responsabilità più o meno generalizzata (anche la generazione dei padri e delle madri, ben stigmatizzata nel piano fisso della cena). Un’atmosfera di violenza costante ben rappresentata nello stile nervoso, culminante nella scena finale in cui il regista sembra chiedere direttamente allo spettatore di assumersi una responsabilità. Molto bello.
yesse