ALL WE IMAGINE AS LIGHT
CONVERSAZIONE CON PAYAL CAPADIA
Dopo il successo ottenuto a Cannes con il documentario vincitore dell’Œil d’Or, A Night of Knowing Nothing nel 2021 (Quinzaine des Cinéastes), la giovane regista indiana Payal Kapadia, ritorna quest’anno in concorso nella selezione ufficiale del festival con il suo primo lungometraggio di finzione, All We Imagine As Light, ritratto sensibile e coraggioso di tre donne che vivono e lavorano a Mumbai. Con un tocco raffinato e sensoriale, la regista sa scrutare i pensieri, i desideri e le speranze delle sue eroine: Prabha, un’infermiera esperta, che affronta la lontananza del marito emigrato in Germania; Anu, la sua giovane collega, che vive una relazione segreta con un uomo musulmano; e Parvaty, cuoca nell’ospedale dove lavorano, che rischia lo sfratto a causa della demolizione imminente della sua casa in uno degli slum della megalopoli. Il flusso incessante e pulsante dell’umanità che popola Mumbai viene raccontato nel film con un lirismo tinto di realismo grazie ad un approccio ricco di elementi documentari. Con il suo sguardo vigile e perspicace, Payal Kapadia sa immergerci nell’atmosfera unica della metropoli indiana, teatro di vita, di passioni inconfessate e di lotte sociali. Quando Prahba e Anu lasciano Mumbai per un breve soggiorno in riva al mare, a Ratnagiri, l’orizzonte delle loro vite si apre ai segreti lussureggianti della selva e ai misteri dell’oceano travolgendole con un soffio possente di speranza e di libertà.
L’intervista con Payal Kapadia si è svolta a Cannes e nasce da un incontro collettivo con un gruppo di giornalisti.
In India, i diritti delle donne sono un tema molto delicato. Com’è stato per te realizzare questo film di cui sono protagoniste tre figure femminili forti ed indipendenti?
Payal Kapadia: Le cose stanno lentamente cambiando. In India stanno emergendo sempre più film incentrati sulle donne. In effetti, nella selezione di Cannes di quest’anno, quasi tutte le sezioni includono un film indiano, e la maggior parte tratta delle tematiche femminili. C’è anche un’altra regista, Sandhya Suri, qui a Cannes. Gli altri film sono diretti da uomini, credo, ma presentano dei personaggi femminili molto forti. Quindi sì, qualcosa sta cambiando, e si stanno facendo molti più film con delle protagoniste donne. Per quanto mi riguarda, sono circondata da donne nella mia vita quotidiana, quindi la maggior parte dei miei personaggi nei miei film sono dei personaggi femminili. Facciamo dei film che nascono dalle nostre esperienze personali. È da lì che nasce questa scelta. In effetti, anche il numero di donne registe in India è in crescita, ed è sicuramente un segnale positivo.
Nel film ci sono tre generazioni di donne. È stato un modo per mostrare un cambiamento nella società e inviare un messaggio di speranza per le nuove generazioni?
In un certo senso, sì. Tuttavia, la donna più anziana è in realtà più vivace e combattiva rispetto a quella di mezza età. Volevo rappresentare donne di tutte le età. Infatti, all’inizio del film c’è una donna anziana, mentre alla fine compare una ragazzina in un bar vicino al mare, che danza libera e si diverte. Il film abbraccia un ampio spettro di età, ed era importante per me rappresentarlo, quasi fosse una sola vita mostrata attraverso le sue diverse fasi.
Cosa volevi raccontare, in particolare, sulle vite di queste donne in India, a Mumbai, rispetto a quelle che vivono lontano dalla citta, nelle zone rurali del paese?
Per me, il nucleo del film ruota attorno all’amicizia. Spesso in India la gente lascia la propria casa per stabilirsi in un’altra città, e lì sono gli amici a diventare il tuo punto di riferimento, la tua famiglia. Ma l’amicizia è una relazione molto particolare: non è definita come quella con un fratello o una sorella, può avere molte forme diverse. È semplicemente ciò che tu e il tuo amico o la tua amica adecidete che sia. Crescendo, vivendo lontano dalla mia famiglia, l’amicizia è diventata per me qualcosa di davvero importante. Anche quando si fa cinema, la tua troupe diventa come una famiglia, come un gruppo di amici. Questa era una delle tematiche che avevo in mente: gli amici ti sostengono, ma a volte pure ti tradiscono. Anch’io, in alcune occasioni, ho tradito degli amici. Quando fai cinema, cerchi di comprendere te stesso in primo luogo e poi il mondo che ti circonda. Queste erano alcuni dei pensieri che volevo esprimere nel film.
Oltre al soggetto del matrimonio, affronti anche quello del controllo delle nascite nel tuo film. Quanto era importante per te parlare di queste tematiche?
L’amore era un tema che avevo già affrontato nel mio film precedente. L’amore è una questione profondamente politica in India. Ma lo è ovunque, in realtà. Chi ami realmente e chi puoi, alla fine, scegliere come marito è una questione complessa nel mio paese. In India, ci sono diversi fattori in gioco: chi puoi sposare è spesso deciso dalla famiglia, che vuole preservare la “purezza” del sistema delle caste – ancora molto presente – e della religione. Mi trovavo in un periodo della vita in cui molti dei miei amici si innamoravano, e i problemi legati a questo soggetto erano diventati una questione quotidiana per me. Quando ci s’innamora in India non si smette per questo di amare anche la propria famiglia. È solo che non si riesce a capire perché la famiglia non riesca a smettere di pensare a certe cose. Cioè no, in fondo si capisce, ma è difficile farle cambiare idea. Per quanto riguarda invece il tema del controllo delle nascite, in realtà in India i diritti delle donne in questo settore sono meglio tutelati che in molti altri paesi anche perché la contraccezione da non ha niente a che vedere con la nostra religione. Si tratta, piuttosto, di una forma di emancipazione, che nasce dalla consapevolezza di ciò che si può fare per evitare una gravidanza non desiderata. E una volta che si acquisisce questa consapevolezza – come accade alla ragazza nel film – si ottiene il controllo sul proprio corpo.
Volevo sapere qualcosa di più sul modo in cui racconti queste vite. Mostri anche degli aspetti come il fatto di bere alcolici, la nudità e il sesso – cose piuttosto comuni qui a Cannes o nel cinema europeo in generale– ma non così diffuse in India…
Oggi, in India, molte cose si stanno cambiando. Le piattaforme di streaming come Netflix sono sempre più accessibili. Rispetto a dieci anni fa, il cambiamento è evidente. Ma c’è ancora molta strada da fare. Non dico che mostrare scene di sesso al cinema sia necessariamente meglio o peggio. In India abbiamo una nostra sensibilità culturale su come rappresentare certi temi, e credo che sappiamo farlo molto bene. È una questione complessa. Tuttavia, per me, il film parla anche dei desideri dei miei personaggi, e per uno di loro il desiderio sessuale è centrale. Per questo era importante includerlo nella narrazione.
Una delle tematiche che affronti nel film è quella delle persone sfrattate perché non in possesso di documenti, molti di loro – di fatto- non ne hanno mai avuti. È una realtà comune nelle baraccopoli, nate senza permessi. In una scena, le protagoniste partecipano ad un’assemblea del sindacato locale. C’è speranza in questo ambito?
Sì, c’è speranza. Credo molto nei sindacati. Durante la fase di ricerca, ho partecipato a molte di queste riunioni, organizzate dai sindacati operai e da collettivi trasversali che agiscono nella zona tra Lower Parel e Dadar, a Mumbai – l’area dove c’erano i cotonifici fino agli anni ’80. In quel periodo ci fu un grande sciopero dei lavoratori. Ma invece di soddisfare le richieste dei loro dipendenti, gli industriali decisero di chiudere gli stabilimenti, lasciando tutti senza lavoro. In un caso specifico, venne stabilito che un terzo dei terreni – concessi agli industriali a prezzi agevolati – dovesse essere destinato alle famiglie degli operai. Ma ciò non è mai accaduto. Al loro posto sono stati costruiti dei centri commerciali. Lo scherno è che si è detto che quei centri sarebbero stati degli “spazi di svago” per le famiglie degli operai. Immagina: non possono nemmeno entrarci! Ora, però, il movimento si sta riattivando anche se molti ex lavoratori, ormai in pensione, sono tornati nei loro villaggi. Il distretto di Ratnagiri, ad esempio, era una delle zone in cui la gente si stabiliva per andare a lavorare nelle fabbriche di Mumbai. Anche molte donne lavoravano lì, cucinando per quegli uomini che, lontani dalle loro famiglie, e volevano mangiare cibo casareccio. Oggi, si sta cercando di rimettere in discussione quella sentenza. È un processo lungo, ma sono una persona ottimista. Finché il processo non è finito, le cose sono ancora in moto. Inoltre, ci sono diversi avvocati che si occupano proprio di questi casi e, in alcune procedure, hanno ottenuto dei risultati positivi. Ma non so cosa ne sarà di tutti gli altri. In fin dei conti il mercato immobiliare di Mumbai è altamente redditizio e tutti cercano di approfittarne.
Perché hai scelto di girare le scene ambientate a Mumbai durante la stagione dei monsoni?
A Mumbai ci sono solo due stagioni: quella dei monsoni e quella senza monsoni. Durante tutto l’anno ci sono 34 o 35 gradi. Quando arrivano i monsoni, il clima diventa imprevedibile e questo crea una certa eccitazione. Volevo che nel film ci fossero entrambe le stagioni. Il monsone è un periodo molto particolare perché cambia completamente l’aspetto della città che Diventa di un bellissimo blu, oppure grigio opaco, e quando piove, piove davvero! A volte non riesci nemmeno a vedere l’edificio di fronte a casa tua, tanto è intensa la pioggia ciclonica. Il monsone in India è associato a due cose: da un lato segna la fine dell’estate – il caldo evapora con l’arrivo della pioggia – e dall’altro porta con sé una certa atmosfera romantica. In molti vecchi film hindi si vedono coppie innamorate correre sotto la pioggia, felici. Ma la realtà è ben diversa per chi deve andare a lavorare ogni giorno: le strade si allagano, i binari ferroviari si sommergono, e spesso non si riesce a tornare a casa. A volte si resta bloccati. Oggi c’è un sistema di allerta, che avvisa la popolazione con un “codice rosso”, dicendo di non uscire perché “pioverà a dirotto”. Ma spesso le previsioni sbagliano. È proprio questa imprevedibilità del monsone, e la contraddizione tra il romanticismo e le difficoltà quotidiane, che volevo raccontare nel film. Se non sei ricco, se non hai un’auto, muoversi in città durante il monsone può essere un incubo. Questi sono i due aspetti che volevo rappresentare.
La luce è parte del titolo stesso, ma è anche concretamente molto importante nel modo in cui affronti illumini e fotografi il film. Potresti dirci qualcosa in più sulle tue scelte estetiche?
Ho vissuto a Mumbai a lungo negli ultimi anni, insieme al mio direttore della fotografia, che vive lì anche lui. Abbiamo impiegato moltissimo tempo per fare il film. Già tre anni fa stavamo pianificando come trattare la luce nel film. Volevamo che Mumbai fosse immersa nei colori del monsone. A Mumbai, infatti, quando arriva il monsone, molte persone devono coprire le loro case con dei teloni di plastica blu, altrimenti l’acqua penetra ovunque. Quindi durante il periodo dei monsoni si possono vedere moltissimi edifici e strutture ricoperte da questi teloni blu – che noi chiamiamo tarpaulin. La città si trasforma in un immenso paesaggio blu elettrico, con questa plastica che sventola ovunque. Trovo che questi teloni siano molto cinematografici, mi colpiscono molto visivamente quando si muovono con il vento. Questo blu era un elemento molto forte per me, così come anche il viola. Anche il magenta è un colore che si vede spesso nelle ferrovie, perché è quello usato per dipingere i treni. Era importante per me includere questi colori nel film: erano i colori della città che volevamo mostrare. La seconda parte del film è ambientata a Ratnagiri, che si trova a sud di Mumbai ed è un distretto costiero dove la terra è rossa – un elemento caratteristico di questo luogo. Tutte le case sono fatte con dei mattoni ricavati da questa terra rossa. Quindi c’era il rosso, fin dall’inizio, e poi in quest’area c’è anche un bosco molto rigoglioso, verde, bellissimo. Quindi nella prima parte del film ci sono i colori del monsone, mentre nella seconda parte domina il rosso di Ratnagiri e le foglie secche dopo il monsone. Queste erano le due idee cromatiche che avevo in mente. Anche il movimento della macchina da presa cambia tra le due parti: nella prima c’è una sensazione più verticale, data dalla città; nella seconda, un senso più orizzontale, legato all’oceano. Quando vai alla scuola di cinema, forse pensi troppo a queste cose, ma è l’aspetto della prassi cinematografica che mi diverte di più. E quando hai un’equipe che si entusiasma come te per questo tipo di cose, allora tutto diventa bellissimo!
Ho trovato molto bella la modalità con cui filmi l’intimità. La domanda che ti ho fatto prima sulla luce non riguardava solo la palette cromatica, ma anche il contrasto tra luce e buio, che diventa centrale, soprattutto nella seconda parte del film. Ce ne puoi parlare?
In realtà mi piace molto il buio; molti dei miei film sono girati nella penombra. Non è sempre chiaro ciò che si vede. Lavorando su questo film, molte persone mi dicevano: “È troppo scuro!”. Ma a me il buio piace. Questo film in realtà non è così scuro, ma c’è un’ora magica molto lunga, che si estende e diventa quasi uno spazio onirico. La luce che volevo ottenere era simile a quella sensazione che si ha quando si sogna, in cui non si sa bene che ora del giorno sia. È come quando chiudi gli occhi e senti quella strana nebbiolina grigia. Volevo che l’ultima parte del film fosse proprio così: un tempo esteso che sfuma nella notte. È stato difficile da girare, perché l’ora magica in realtà non dura così tanto.
Come contribuiscono la musica e il suono a creare una sorta di rarefazione nel tuo racconto?
Mi piace usare il suono in un modo che aiuti a passare da una realtà molto oggettiva a uno spazio essenzialmente interiore, come se il suono passasse dall’esterno all’interno. Mi piace usarlo così. Anche la musica diventa qualcosa di evocativo, che si sente nel cuore.
La foresta tropicale che ci mostri nella seconda parte del film, cosa rappresenta per te?
Volevo semplicemente creare la sensazione che le due protagoniste nel lasciare la città si addentrassero in un luogo completamente diverso, in un’ambiente che non fosse organizzato e strutturato come la società molto ordinata e civile – anche se forse “civile” non è la parola giusta- di un grosso centro urbano come Bombay. Volevo qualcosa di più selvaggio, lasciato a sé stesso. Ecco il perché della foresta: non è curata, non sottostà a nessuna regola sociale, è uno spazio di libertà.
Questo film è meno lirico rispetto al tuo precedente, A Night of Knowing Nothing. Sei d’accordo?
Direi di sì. A Night of Knowing Nothing è un film molto diverso, e spesso le condizioni produttive in cui si fa un film determinano ciò che diventa. Per A Night of Knowing Nothing avevo una troupe piccolissima: c’eravamo solo io, Ranabir Das e un paio di amici. Era come stare a casa e poi girare un po’. Ci lavoravamo a intermittenza, diciamo. Questo, credo, ha influenzato in modo essenziale il linguaggio del film. Per All we imagine as light, invece, alcuni giorni avevamo una troupe di ottanta persone. Questo, inevitabilmente, incide su quello che il film diventerà, fa parte del suo processo creativo e lo influenza in modo decisivo.
Il tuo film precedente era piuttosto sperimentale. In che modo quest’esperienza ha contribuito al tuo esordio nel lungometraggio di finzione, che ha uno stile molto diverso?
Sono stata molto influenzata da una serie di registi che lavorano sia nel documentario che nella finzione, a volte mescolando le due cose. In questo film c’è molta non-fiction incorporata nella fiction. M’ interessava proprio questo approccio. Ad esempio, Miguel Gomes è un regista che ama fondere questi due linguaggi – fiction e non-fiction. Quando ero a scuola di cinema, ho fatto il mio progetto di tesi proprio su questo: finzione e non finzione, e sul come possano coesistere. Da lì in poi ho iniziato ad aprire la mia mente. Ed è per questo che il cinema è così meraviglioso: puoi sperimentare spesso e vedere dove ti porta. Queste definizioni esistano soprattutto per i festival e per i curatori. A mio avviso bisogna continuare a provare cose nuove, finché si può.
Faresti mai un film a Bollywood?
Credo proprio di sì! Mi piacerebbe moltissimo fare un film a Bollywood, anche solo perché mi permetterebbe di avere un pubblico molto più numeroso! (ride)
Puoi raccontarci qualcosa sul tuo percorso artistico? Quando e come hai deciso di diventare cineasta?
Quando stavo ancora frequentando il mio corso di laurea, fu inaugurato a Mumbai un nuovo festival cinematografico, dedicato specificamente al cinema sperimentale. Il direttore del festival proponeva, ad esempio, le opere di Stan Brakhage e altri film di quel genere, che noi non avevamo mai visto prima. Certo, internet esisteva già, ma non sapevamo davvero cosa cercare. Sai, hai bisogno di qualcuno che curi un programma per te. I festival sono fondamentali da questo punto di vista, e per me quello fu un momento davvero importante. Potevo andare a vedere film sperimentali e poi tornare a casa a leggere su di essi. Il festival proponeva anche animazioni sperimentali dal Canada su pellicola, cose di questo tipo. Avevano un piccolo proiettore, era un festival davvero minuscolo, ma ha completamente liberato la mia mente riguardo a che tipo di cinema fosse possibile fare.
Uno dei film proiettati era stato realizzato da una studentessa del Film and Television Institute of India, la Scuola Nazionale di Cinema. E mi sono chiesta: cos’è questo posto dove si possono realizzare film del genere? Così ho fatto delle ricerche e ho deciso che volevo assolutamente studiare lì. Al primo tentativo non sono stata ammessa, ma ci ho riprovato e, fortunatamente, sono riuscita a entrare. Credo che siano stati i cinque anni più belli della mia vita, perché la scuola conserva un archivio straordinario di film. In passato, l’India era culturalmente allineata con l’ex Unione Sovietica, per cui ricevevamo molti film dalla Russia sovietica, ma anche pellicole ceche, come quelle di Věra Chytilová, tutte su pellicola. È stata l’esperienza cinematografica migliore che potessi immaginare: vedere film di Eisenstein, per esempio, in quel contesto era straordinario.
In che modo tua madre, Nalini Malani, ha influenzato la tua visione artistica?
Mia madre è un’artista. In India non è semplice scegliere questa strada, soprattutto per una donna. Decidere di diventare un’artista o una regista non è affatto scontato. Ma mia madre ci è riuscita, ed è stato più facile per me seguire questo percorso, perché, in un certo senso, lei aveva già fatto molto del “lavoro” necessario affinché ciò fosse possibile. Quindi per me è stato più semplice. Lei, come membro della mia famiglia, era già pronta ad accettare la mia scelta e a dirmi: “Fai ciò che vuoi!”. Ma anche osservarla mentre lavorava ai suoi progetti artistici è stata una vera fonte d’ispirazione per me: lavorava sul tavolo della cucina tanto quanto nel suo studio. In effetti, era sempre al lavoro. Ma per lei non era un lavoro: era semplicemente un desiderio continuo di creare, di plasmare qualcosa. Io vedo il mio lavoro da regista allo stesso modo: mi piace lavorare con le mani, assemblare le cose, sperimentare. Forse è proprio questo che ho assimilato da lei durante la mia crescita. Quando sto facendo un film, non smetto mai di pensare al mio lavoro; è un pensiero costante, ossessivo, ma è bello così. È un piacere, ed è un vero un privilegio potere esercitare un mestiere come questo.