di Maria Giovanna Vagenas / La danza de la realidad è un film di famiglia; un film sulla famiglia del regista Alejandro Jodorovsky all’epoca in cui era bambino, interpretato e realizzato dai membri della sua famiglia di oggi. Dall’alto dei suoi 84 anni Jodorovsky intraprende un cammino a ritroso per guarire la sua anima dai traumi dell’infanzia; riscrive così la storia della saga familiare – osservandosi da lontano e sdoppiandosi nel suo io attuale e in quello di Alejandro bambino – per trasformare, con un gesto affettuoso e poetico, le zone d’ombra del passato nell’esperienza di una redenzione utopica.
Il film ripercorre l’autobiografia immaginaria dell’artista adottando il punto di vista dell’infanzia. Ci ritroviamo così proiettati negli anni trenta: la grande depressione getta la sua ombra in Cile dove gli Jodorovsky si sono rifugiati fuggendo i pogrom antisemiti della loro Ucraina natale. La famiglia si è stabilita a Tocopilla, una cittadina miniera nel nord, ammassata su un’esigua lingua di terra fra le acque dell’oceano ed un’enorme montagna desertica.
Sulla via principale del pease, fra i negozi che si affacciano ai due lati della strada, spicca quello dei genitori di Alejandro: un elegante emporio di biancheria intima per signore. Jodorovsky ci invita a condividere, con uno sguardo complice e pieno di compassione, la vita quotidiana di Alejandro bambino. Quest’operazione, lungi dall’essere condotta nel modo di una rappresentazione naturalistica, adotta piuttosto un linguaggio simbolico mischiando suggestivamente la scenografia reale di Tocopilla, rimasta quasi immutata nel tempo, e i volti dei suoi abitanti, ingaggiati come comparse, con l’esuberante immaginario artistico del regista.
Nel suo Amarcord Jodorovsky ama mostrare i punti di sutura: il film prende la forma di una riflessione cosciente sulla propria infanzia, sulla propria famiglia e sulla storia del paese che lo ha accolto. A più riprese Jodorovsky adulto appare sullo schermo alle spalle di Jodorovsky bambino – interpretato dal nipote del regista – intavolando con lui dei dialoghi immaginari dettati dalla saggezza dell’oggi e da un affetto immenso per quell’anima di bimbo che l’artista, ed ognuno di noi, porta sempre nel fondo di se stesso.
Lo sguardo curioso, meravigliato, spesso timoroso, angosciato, insicuro, ma anche puro e generoso dell’infanzia è mediato dall’esperienza di vita di un ultra ottantenne che non ha mai smesso di sognare. Il ricordo viene trasfigurato dalla necessità dell’adulto di rendere giustizia alle iniquità del passato. Nello spazio aperto e libero della creazione artistica trovano finalmente espressione non solo tutte le frustrazioni del bimbo di un tempo, ma anche la proiezione di tutti i suoi desideri repressi; così la madre dalla voce bellissima – costretta brutalmente dal padre a rinunciare al suo sogno di diventare cantante lirica – realizza nell’arco del film la sua aspirazione.
Jodorvsky mette in scena una figura materna serena, forte e coraggiosa che, invece di parlare, canta con una dolce voce da soprano. Jodorovsky fa ugualmente i conti con suo padre: un uomo autoritario, inflessibile che sembra avere imposto una disciplina ferrea al piccolo Alejandro esigendo da lui una serie di attività sempre al di fuori della sua portata. Una lettura psicanalitica del film è ampiamente giustificata tanto il complesso di Edipo è messo in scena in tutto il suo splendore. Il padre è presentato come una figura dittatoriale – un grosso ritratto di Stalin campeggia, come un nume tutelare, sul muro di fondo del negozio famigliare – severo, intransigente e duro con gli altri, Jaime Jodorovsky sembra esserlo stato altrettanto con se stesso, giungendo, ma questa è probabilmente l’interpretazione postuma di suo figlio Alejandro, fino alla propria autodistruzione. Stalinista convinto, l’uomo applica inesorabile la sua dottrina ideologica tanto nella sua vita di tutti i giorni, quanto nell’educazione del figlio: nessun tipo di debolezza è tollerato, bisogna essere forti, risoluti, volitivi, realisti.
“Dio non esiste! Dio non esiste! La morte è la fine di tutte le cose! Il corpo si trasforma in un cadavere e basta!” . Questo ritornello, che Alejandro si sente ripetere ogni giorno, gli rende la vita assai difficile. Una serie di episodi tragico-comici illustrano l’inadeguatezza perpetua del ragazzino difronte alle esigenze smisurate del padre. Alejandro, sensibile, sognatore, generoso ed altruista, non è, per suo padre, mai all’altezza delle situazioni.
E poi, non dimentichiamolo, Alejandro è diverso dagli altri perché è un ebreo. Questa sua differenza diventa di pubblico dominio in una scena grottesca in cui i compagni di classe del ragazzino, riunitisi in riva al mare per una sessione di masturbazione collettiva, scoprono che il membro circonciso di Alejandro somiglia ad un ‘fungo’ e ne fanno lo zimbello di tutti.
In modo sottile Jodorovsky ribalta completamente – di fatto perpetuandola- la situazione di partenza del suo modello famigliare: in un gioco di specchi invita infatti suo figlio Brontis ad interpretare il ruolo di suo padre, Jaime, il vero protagonista della vicenda. Una scelta non completamente anodina, visto che lui stesso è stato altrettanto esigente nei confronti di Brontis adolescente imponendogli, per due anni interi, un durissimo allenamento di arti marziali per le riprese di Dune, un film che non vide mai la luce…
Tutt’altra è invece la rappresentazione della madre: una donna credente, soffice, alta maestosa, dolce e paziente che, dietro la sua apparente docilità e sottomissione al marito, è la vera sorgente di forza della famiglia. Maltrattato dal padre, il giovane Alejandro trova riparo e conforto fra le braccia di questa donna gioiosa e piena di saggezza. La sua comprensione, il suo affetto ed il suo animo poetico trasporteranno il ragazzino in un’altra dimensione fatta di magia e d’insperati miracoli, un luogo in cui la fiducia in sé stessi abbatte ogni barriera ed annulla ogni ostilità. Questo spazio incantato di libertà interiore è meravigliosamente illustrato da una scena in cui i due entrano completamente nudi in una bettola piena di uomini volgari e dichiaratamente antisemiti restando completamente invisibili agli astanti.
Jodorovsky dà carta bianca alla sua memoria: aspetti puramente autobiografici si mescolano indistintamente con sogni, chimere, proiezioni di desideri, visualizzazioni di angosce d’infanzia. La realtà sociale e i fatti politici dell’epoca sono ricostituiti con libertà poetica e poietica, i luoghi sono rievocati con una precisione tinta di elementi sovversivamente fantastici. La satira sociale e politica si esprime attraverso un gusto spiccato per l’assurdo associato ad elementi crudelmente veridici come accade nella scena della tortura del padre imprigionato dagli agenti del dittatore cileno Ibañez. Parodia e melodramma si mescolano invocando una corte di personaggi straordinari, stravaganti, toccanti e patetici: un nano che sbraita davanti al negozio famigliare per attirare i clienti, un mago-teosofo che deambula nudo per le strade della città, un gruppo di trasvestiti comunisti, una fata argentata, una mendicante deforme, un vecchio falegname chiamato Giuseppe…
Una sarabanda d’immagini e situazioni al limite fra verità e fantasia, satira barocca e realismo: alle tinte documentarie si susseguono mischiando, con mano sicura, emozione e magia, empatia e distanziamento. Visual
mente il film si abbandona ad un orgia di colori brillanti che fanno risaltare costumi, accessori e scenografie come delle pietre preziose sul fondo grigio e polveroso dei paesaggi circostanti. La sovrabbondanza eruttiva degli eventi è temperata da una grande sobrietà nei movimenti dell’obiettivo e nella scelta accurata delle inquadrature.
Più di vent’anni dopo il suo ultimo film, Il ladro dell’arcobaleno, girato nel 1990, Jodorovsky dimostra di non avere perso nulla della verve intuitiva e della creatività prorompente che ne hanno fatto un regista culto – El Topo, La Montagna Sacra e Santa Sangre fanno parte della storia del cinema – senonché quest’opus tinto di melanconia, nostalgia ed affetto prova che l’eterno fanciullo ha raggiunto ormai la sua somma maturità.