Brothers è insieme un robusto melodramma familiare e un impietoso sguardo sulle conseguenze rovinose del post-Afghanistan diretto dall’irlandese Jim Sheridan con mano americana. Chi ha potuto vedere il bellissimo Nella valle di Elah troverà facili corrispondenze tra le due pellicole tanto da interrogarsi sulla possibilità che il cinema americano abbia iniziato senza reticenze ciò che seppe fare all’indomani della fine della guerra del Vietnam: raccontare il ritorno dall’inferno e il traumatico reinserimento dei reduci di un conflitto (perduto) che lacerò una nazione e la sua coscienza. I due film mostrano dei tratti comuni: sia Tommy Lee Jones, il padre del soldato ucciso nel film di Paul Haggis, che Sam Shepard, che qui interpreta il padre di un Tobey Maguire in pericolosa mutazione fisica e psichica, hanno partecipato negli anni sessanta all’attacco contro i viet-cong ed entrambi ammirano con estasi ideologica l’eroismo dei propri figli. Il rapporto di filiazione tra le due generazioni non costituisce soltanto un elemento di narrazione all’interno dei film ma un preciso stimolo di riflessione su un paese che torna ciclicamente sugli stessi tragici errori trascinando i propri figli al macero per riaccoglierli in sterminati cimiteri coperti di croci e ammantati di retorica. Ieri i “musi gialli” oggi “quelli con la barba” come li chiama la figlia del protagonista, ieri la fitta vegetazione di un territorio trasformato in un’immensa trappola letale, oggi paesaggi lunari dominati da talebani che sequestrano, sgozzano e soprattutto filmano le atrocità.

Occorre precisare che Brothers non è un film antimilitarista. Non è nel giudizio politico della guerra in Afghanistan che si definisce il film. Il suo punto di partenza sono i personaggi e le loro trasformazioni interiori a fronte dell’evento bellico che inghiottirà Sam, ufficiale modello, padre affettuoso e personaggio perno. Gli ottimi attori danno corpo e pienezza emotiva ai personaggi che interpretano, favorendo una crescita di tono costante che si accorda con i tempi e il carattere del film. Le scene di alta tensione trascinano lo spettatore dentro un’atmosfera quasi thriller ma senza stonature e senza pleonasmi perché il regista appare attento a tenere contenuti e andamento ritmico dentro i binari della sua storia. Storia che si apre con la partenza di Sam, ufficiale dell’esercito, in Afghanistan, il quale subirà un attentato e verrà creduto morto. Nel frattempo suo fratello, uscito dal carcere e inviso a suo padre per la vita dissoluta che conduce in opposizione alla rettitudine di Sam che lui adora, si avvicina a Grace (Natalie Portman) per aiutarla con le figlie. Il ritorno a sorpresa di Sam sconvolgerà i rapporti familiari tanto quanto la sua precedente partenza e la sua falsa morte.

Ciò che colpisce è non è il ritorno di un non-soldato ma di un non-uomo.  Disumanizzato da ciò che è stato costretto a vedere ma soprattutto per ciò che è stato costretto a compiere, Sam riappare come uno spettro. Uno spettro che si aggira di notte per casa poichè non riesce a dormire ed è ossessionato dal possibile tradimento della moglie con suo fratello. E’ mutato, paranoico, pesantemente smagrito, segnato dalle cicatrici lasciategli dai suoi carcerieri e non riesce a non ripensare alla sua azione compiuta solo per tornare a casa da sua moglie e le sue figlie che ora non lo accettano più perché affezionate allo zio. Interpretato da Jake Gyllenhaal, Tommy affronta il proprio cambiamento interiore specularmente a quello di Sam. Compiendo un percorso inverso, conoscerà il valore della responsabilità. Il finale sebbene non “chiuso” rende possibile una pacificazione familiare e scioglie una tensione che mai, durante la visione, abbandonerà gli spettatori in sala. Il film, va ricordato, è un remake del danese Non desiderare la donna d’altri di Susanne Bier (2004).

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