di Fabrizio Croce/In Brood –la covata malefica , disturbante e radicale horror del selvaggio e audace David Cronenberg fine anni’70 , sarebbe un perfetto contro-manifesto alle recenti celebrazioni e difese ad oltranza della cosi detta “famiglia naturale”: in quel caso la variante perversa veniva incarnata da una donna che, abbandonata dal marito in un istituto psichiatrico, somatizzava i propri istinti aggressivi (a proposito di chi dovrebbe difendersi da chi … ) generando , tramite partenogenesi, delle creature mostruose senza occhi e senza denti e inviandole poi nel mondo ad eliminare le persone a lei ostili. Si trattava di una scena di parto assolutamente scioccante, anche perché arrivava alla fine del film quando l’interrogativo sulla provenienza dei piccoli, famelici assassini non lasciava più spazio ad un già terrificante dubbio: la maternità non più come scelta di vita , ma espressione delle più profonde paure dell’individuo, la solitudine e la frustrazione femminile, l’impotenza e l’indifferenza maschile.
La suggestione che mi fa rivolgere la memoria all’epilogo di quel film, così attuale nell’ interrogar si in una forma deviante sul concetto di “famiglia”, è contenuta nelle immagini di Border –creature di confine , opera anomala per molti (contro) versi e figlia fertile delle nuove tendenze dell’horror/fantasy di questo scampolo di decenio . Parliamo di un film di produzione svedese, ma diretto dalla sensibilità di un regista iraniano, Ali Abbassi , che permea la visione con un senso di mistero, di sacralità e di arcaicità; il film si ispira a Confine , un racconto fantasy di John Ajvide Lindqvist (il celebrato autore di Lasciami entrate, a sua volta soggetto per una memorabile versione cinematografica) eppure, soprattutto nella prima parte, sembra di assistere ad un film dei Dardenne , per il puntuale e attento realismo nella descrizione degli ambienti, dei comportamenti , dei gesti e della psicologia della protagonista. E se la precedente trasposizione da Lindqvist dava un corpo e un volto alla ragazzina costretta a nascondere la sua identità di vampira centenaria , il corpo e il volto di Tina non sono celati o camuffati, ma esposti alla luce piovosa dei paesaggi dell’hinterland svedese.
Quella faccia e quei denti leonini fanno pensare a Ricky, il ragazzino affetto da leontiasi (questo il nome scientifico della malattia che deforma i lineamenti ) alla cui storia vera si era ispirato Peter Bogdanovich per lo struggente Dietro la maschera. Qui però ,nonostante l’approccio realistico finanche nella realizzazione del make up , tanto che era quasi più esagerato quello su Eric Stoltz nel film di Bogdanovich, ci allontaniamo sempre di più dalla realtà grazie all’introduzione di elementi e caratteristiche che fanno di Tina un essere quasi mitologico o la particolarissima variazione di un super eroe: è infatti un poliziotto che lavora alla dogana e ha la capacità(il super potere?) di sentire l’odore delle emozioni sulle persone, come la vergogna, la paura e la rabbia, e di conseguenza smascherarne le azioni più deplorevoli. Come i super sensi che Peter Parker o Bruce Wayne acquisiscono da ragni o pipistrelli, ma nel caso di Tina il suo aspetto rimanda a una condizione che supera l’incontro tra animalità e umanità: non è passata, sempre rimanendo in area Cronenberg, attraverso la macchina del teletrasporto da cui è uscito Brundle + Mosca (+ la sua tragedia), non c’è stata nessuna fusione tra la Bella e Bestia.
Tina è nata in quella maniera, e la sua storia diventa il racconto dell’acquisizione della consapevolezza della propria unicità e il ribaltamento di una prospettiva: chi che non è uguale alla maggioranza non è in difetto, come le hanno fatto credere , dicendole che le manca un cromosoma ; c’è bellezza , dignità e perfino eros in Tina ,tutte scoperte possibili attraverso lo sguardo di chi è uguale e diverso . Vore , l’incontro con il suo alter ego maschile , le rivela la sua appartenenza alla stirpe dei Troll, mitiche creature del folklore del Nord Europa , e soprattutto la provoca a sviluppare e liberare la parte istintiva , la sessualità, il piacere dell’immersione nella natura e nella totale deflagrazione degli schemi e delle convenzioni imposti da un cultura dominate, patriarcale, punitiva, della rimozione: è stato il padre a far credere a Tina di essere un’umana incompleta per non rivelarle di averla sottratta ai genitori naturali, ghettizzati in un ospedale psichiatrico insieme a quelli della “loro specie” .
E qui veniamo al collegamento con il Cronenberg dell’inizio : in un totale capovolgimento di ruoli , significati e segni , c’è infatti un’altra impattante scena di parto in cui è il maschio ,Vore, fecondato da Tina, a generare delle uova da cui nascono i bimbi-troll (e se le uova non vengono fecondate vengono partorite come una sorta di embrioni che hanno una breve durata di vita).Abbassi , seguendo il racconto, entra nello specifico delle modalità riproduttive delle creature “altre” e, dal punto di vista cinematografico, rappresenta i loro bambini “altri” , anche nella loro fase più germinale: ma ciò che poteva cadere nel facile effetto ,contraddicendo lo stile rigoroso di almeno tre quarti della narrazione , crea una spiazzante sensazione di tenerezza ed empatia , di vicinanza , di contatto rispetto a ciò che è considerato addirittura mostruoso nella nostra limitata e condizionata percezione. È come se la rivelazione che si presenta a Tina della sua reale natura , nell’incontro prima con Vore e poi con i piccoli concepiti, ci permettesse di entrare in relazione con qualcosa di così profondo e intimo da poter essere accolto come plausibile, autentico, universale . Il regista sa , e riesce a trasmette , la necessità di mostrare l’immagine di quei neonati così fuori dalla convenzione e la conseguente reazione, prima spaesata e infine compassionevole, che è in grado di provare Tina, esattamente come, con un altro parallelo azzardato e necessario ,Christian Mungiu sapeva la necessità di mostrare il feto dell’aborto clandestino in 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, in quel caso non per suscitare partecipazione ma sgomento, rifiuto, indignazione per l’abusivismo di una pratica che squarcia e offende in primis il corpo delle donne.
La metafora politica dell’emarginazione e del rifiuto del diverso è comunque una chiave di lettura riduttiva rispetto alle prospettive poetiche e liriche a cui questo film coraggiosamente si apre ; non c’è la necessità di trovare un’integrazione , Vore resta un personaggio fieramente anarchico e provocatorio ,che sfida e attacca la razza umana nelle sue debolezze e contraddizioni (la sottotrama dei bambini umani rapiti e scambiati con i feti Troll) e Tina, pur non condividendone lo spirito vendicativo, ne com-patisce la situazione di sradicamento e la tensione ad esprimersi nella sua completezza e peculiarità.
Se la madre genitrice sia 1 che 2 di Cronenberg ci ha raccontato come l’unica famiglia contro natura sia fondata sui sentimenti negativi degenerati nella psicosi della mente e della carne, Tina ci lascia una lezione ben più preziosa e ricca di possibilità sotto il cielo plumbeo che la ricopre: essere consapevoli di appartenere a noi stessi, ci permette di sentirci parte di una famiglia, una tribù, una comunità …. Perché, parafrasando la pacata lucidità di un cantautore /pensatore libero come Niccolò Fabi, ogni abbraccio è sempre una scelta, e non un patto da onorare.