E’ uscito in Italia il 14 febbraio facendo leva su un titolo «celebrativo», ma in realtà è tutt’altro che un film sanvalentinesco Blue Valentine, amarissimo spietato studio anatomopatologico, di respiro diacronico, sulla vita di coppia e sul sentimento amoroso. Che poi, dire che sia «uscito» è quasi un sofisma, dal momento che il numero di copie effettivamente distribuite, per un film che aspettava le sale da tre anni (anteprima al Sundance 2010), è risibile: tre su tutto il territorio nazionale. Ma si diceva della dissezione della storia d’amore tra Cindy e Dean Pereira (Michelle Williams e Ryan Gosling), che attraverso una complessa struttura a puzzle, puntellata di flashback, ci mostrano come e perché il loro sentimento sia degradato negli anni dall’innamoramento più pieno all’insofferenza e all’indifferenza, sino, forse, all’odio dell’altro.

Derek Cianfrance, regista e sceneggiatore, ha raccontato di uno script passato attraverso sessantasette stesure (con la collaborazione di Joey Curtis e Cami Delavigne) durante i dodici anni in cui ha cullato il progetto alla ricerca dei finanziamenti adeguati. Il copione è stato poi ulteriormente rimaneggiato sul set, dove il regista ha lasciato ampio spazio a Gosling e Williams, che dopo una fase «laboratoriale» (per alcune settimane prima delle riprese i due hanno vissuto nella stessa casa, facendo la spesa insieme e comportandosi da infermiera e imbianchino come nella finzione) hanno riscritto molti dialoghi al momento del ciak e improvvisato intere scene. Un metodo di lavoro che eufemisticamente diremmo dispendioso, tutto mirato, paradossalmente, al perseguimento dell’essenziale. Il pensiero va qui subito al cinema fondativo di John Cassavetes, a guardare come Blue Valentine disconosca radicalmente tutto ciò che non è la storia d’amore, negando a priori un fuori storico-sociale di qualsiasi tipo. Lo fa già in fase di sceneggiatura, impegnandosi in una costruzione narrativa articolata, che va continuamente avanti e indietro nel tempo, ma che mette a fuoco sempre una sola immagine possibile, non concede altri punti di vista: la stratificazione temporale dunque non serve a dare respiro al racconto, piuttosto a inchiodare chi guarda alla sua ineluttabilità.

Il procedimento si riflette puntualmente, e trova il suo compimento, in termini di messa in scena. Camera a mano da battaglia, nervosa, mobilissima, l’occhio si concentra solo sul primissimo piano, cioè l’amore e il suo fallimento, non conosce profondità, né fuori o controcampi. Lo schermo palpita di continuo a contatto con un’immagine tutta dedita allo studio, quasi anatomico, dei volti e dei corpi dei due attori: la mdp gli sta addosso, è tutt’uno con loro, sembra respirare e pulsare insieme, viverci in consonanza, determinata a carpire il loro evidente stato di grazia, mentre battono le vie notturne di una New York invernale e poco ospitale o giocano a sedursi su un bus scalcinato. Ed ecco allora dove si gioca l’essenziale di Blue Valentine. La possibilità che il film instauri un legame con lo spettatore risiede direttamente nella sua capacità di sabotare il muro della fiction, opponendogli la magia concretissima di un rapporto tra corpi che si avvinghiano, si dibattono e si combattono in una guerra sentimentale di cui siamo gli unici testimoni. In questo modo il dolore per la constatazione che ogni storia d’amore è destinata al fallimento, sofferta certezza che appartiene già alla scrittura di Cianfrance, passando per i corpi brucianti di Williams e Gosling, diventa immagine, diventa nostro.

Nel fondo del film, nel suo nucleo recondito, riposa una seria e invincibile ispirazione pessimista, che non si limita a determinare la visione della coppia. La storia è fondata su un presupposto comune a tutti i racconti sentimentali, una vera e propria condizione necessaria perché possa darsi, al cinema come in letteratura o arte qualsiasi, narrazione d’amore: gli innamorati sono esseri speciali e unici, sono i prescelti dal fato per il conseguimento della felicità; sono supereroi, con un potere straordinario ma spendibile solo nei confronti di un altro specifico essere umano. Cianfrance assume questo presupposto, per esempio «costruendo» una solitudine radicale attorno a Cindy e Dean, sia nella primavera che nell’autunno del loro sentimento, come fossero le ultime due creature innamorate rimaste sul pianeta. Il suo intento finale però è di mettere in discussione l’assunto, di mostrarci in tutta la sua flagranza, attraverso la vicenda emblematica dei due personaggi, l’inevitabile fine delle illusioni. Quello che in Blue Valentine, parallelamente al legame amoroso, sequenza dopo sequenza viene sgretolato, è proprio l’esistenza di questa specialità: come a riportar(ci) tutti al livello base di una umana banalità, dentro la quale la possibilità dell’amore è, appunto, legata alla capacità di raccontarselo, all’autonarrazione.

Blue Valentine è una storia che conosciamo già, ma fingiamo di non saperlo.

2 Replies to “Blue Valentine di Derek Cianfrance”

  1. Bellissima recensione come sempre Armando! Anche se, in questo film, a mio parere, ci sono degli elementi narrativi, nella costruzione dei personaggi, che non mi convincono molto e che non mi raccontano l’universalità dei sentimenti. Il paragone con Cassavetes è lecito ma solo a livello formale, nessuno dei due personaggi, per troppa idealizzazione (lui) e banalizzazione (lei), mi ha restituito l’imponderabile e tragica ambivalenza del sentimento umano.

  2. Sono d’accordo sul fatto che alla fine l’idealizzazione, che è soprattutto di Dean, viene sgretolata. Dean è gentile ma non vede realmente le esigenze di Cindy, e questo avviene fin dall’inizio, quando si innamora a prima vista (il massimo dell’idealizzazione!). La scena a tavola quando lei parla delle lodi ricevute dalla sua professoressa e lui invece di incoraggiarla la prende in giro, mi sembra che già dica tutto; dice, cioè, almeno credo, dei complessi di inferiorità e superiorità che nutrono la patologia della coazione a ripetere (che per lei è anche la tradizionale scissione tra determinazione sociale e passività
    sessuale: “io sono più maschio di te”, dice; ed è anche la possibilità, in fondo un po’ meschina, di essere rassicurata, salvata?, da un uomo non aggressivo innamorato di lei). E’ un film che al fondo, e secondo me molto onestamente, mostra la relazione di coppia come basata su un rapporto di potere e sulle pulsioni sadomasochiste fondative. In questo il film può risultare un po’ parziale perchè le relazioni possono (o almeno ci si prova) essere anche altro (possono cioè potenziare e non solo distruggere, possono essere una narrazione condivisa e non solo una illusoria valle di lacrime). E Cassavetes a mio parere era un irriducibile ottimista (strabordava energia e spirito rivoluzionario da spazi chiusi e concentrazionari), e forse anche questa è una bella differenza 🙂

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