C’era, in chi scrive, un po’ di apprensione in attesa del buio in sala e dell’inizio di Blue Jasmine. Le ultime prove di Woody Allen, infatti, erano state, più che negative, disastrose, imbarazzanti, insopportabili alla vista di chi l’ha tanto amato e puntualmente, ogni anno, aspettava la nuova uscita sperando in una sua “resurrezione”.
In questo caso, parlare di resurrezione suona forse eccessivo, ma non lo è parlare di un colpo di reni da parte del cineasta newyorkese, che sempre più prossimo agli ottant’anni si dimostra nuovamente caustico e frizzante (quasi) come ai tempi d’oro e quindi, magari, in grado finalmente di tirarsi fuori dal baratro di ovvietà e di occasioni mancate in cui è precipitato, più o meno, dall’inizio del nuovo millennio (con pochissime, meritorie eccezioni – su tutte Match Point).
Molta parte del merito va alla prova sontuosa di Cate Blanchett, che entra nell’olimpo delle muse alleniane di tutti i tempi, senza sfigurare al confronto con quelle “storiche” (Diane Keaton, Mia Farrow…) e che al contempo assume, con le sue nevrosi, il ruolo del personaggio-Woody (che non manca quasi mai ed è chiaramente riconoscibile quando – ormai sempre più spesso – il nostro si limita a dirigere il film senza interpretarlo).
Cate Blanchett si prende tutta la scena, è in grado di cambiare con uno sguardo il mood e l’interpretazione di un’intera sequenza, attira la benevolenza e il “tifo” dello spettatore nonostante si ponga in modo altezzoso e sprezzante verso il resto del mondo.
La sua Jasmine è una donna allo sbando, che in poco tempo ha perso tutto: il marito (spregiudicato uomo d’affari, prima arrestato per frode e poi suicida in carcere), l’idea che aveva di lui – cosa che la costringe a riconsiderare con altri parametri tutto il suo passato – la ricchezza e la vita agiata e snob di Manhattan. In una condizione psichica precaria, “aiutata” ad andare avanti soltanto dall’alcool e dalle pasticche, decide così di provare a rifarsi una vita a San Francisco, stabilendosi dalla sorellastra con la quale non ha mai avuto un grande feeling. Dovrà quindi destreggiarsi tra improbabili corteggiatori, la ricerca, per lei inedita, di un lavoro, la rassegnazione a tutt’altro tenore di vita rispetto a quello cui era abituata.
È bastato poco, come si diceva, per ottenere un film decisamente migliore dei precedenti: una sceneggiatura ben congegnata (efficaci i flash-back grazie ai quali si scopre a poco a poco il passato di Jasmine, e il suo ruolo nei guai giudiziari del marito, Alec Baldwin), una satira che prende di mira gli squali della finanza e l’avidità dei ricchi anziché i soliti intellettuali e il jet-set, una notevole prova d’attrice (e una volta dato a Cate ciò che è di Cate, non si può dimenticare il talento di Woody nello scegliere – e poi dirigere – la donna giusta), uno sguardo ironico ma decisamente empatico sulla tragicommedia esistenziale della protagonista. In una parola, il mestiere. Era francamente sconcertante, in passato, ravvisarne la completa assenza, chiedersi come fosse possibile, per uno come Woody – pur dando per assodata e perdonando la mancanza di ispirazione – non cavare qualcosa di meglio almeno da uno spunto, da una singola idea.
Da sottolineare inoltre il ruolo della location sullo sfondo: San Francisco è fotografata in modo affascinante ma discreto, nulla a che vedere con l’oleografia e lo stucchevole effetto-video turistico che ha caratterizzato il recente tour europeo del regista (Barcellona, Parigi e soprattutto Roma).
Il risultato è in definitiva una commedia nera, amara e pessimista quanto Woody ci ha abituato, dove però sembra anche esserci possibilità di salvezza. Se non per Jasmine, almeno per sua sorella e il suo compagno, che sembrano voler dimostrare come a volte il segreto della felicità stia anche nella semplicità delle piccole cose, di cui godere ed accontentarsi.
In attesa di altri indizi, insomma, un cauto ma speranzoso bentornato a Woody Allen.